Scritto da Redazione

Pubblicato il 04/09/2020

Un tour non come quello di Goethe, ma in quanto di più terribile produce oggi l’umano. Mephistopheles, eine grand tour, è l’ultima opera del collettivo teatrale nato vent’anni fa a Castelfranco Veneto, Anagoor, ed adeguatamente è stata definita come un’opera-film. Un film musicato dal vivo da sinfonie elettroniche prodotte ed eseguite durante la proiezione da Mauro Martinuz, da anni fautore dell’architettura sonora del gruppo.

Un viaggio costruito assemblando video provenienti da precedenti opere degli Anagoor, alcuni già visti altri mai prima utilizzati, ed uno filmato appositamente: il volo sopra il cratere del Vesuvio, accompagnando idealmente in una delle sue tre salite sul vulcano il poeta alemanno.

Il capitolo iniziale – come la compagnia ha abituato il suo pubblico anche Mephistopheles è diviso in sezioni – è dedicato al poeta, che nel tramonto dei suoi anni rilegge per l’ultima volta il Faust. Da qui, in un salto dalla marcata cesura, inizia il viaggio: case di cura che appaiono come deposito per abbandonati, le antiche statue riposte in anodini musei al servizio dei flash, le terre sfregiate della campagna, gli allevamenti massificati… Quando appare un gemito di vita è subito accompagnato da una nostalgia. Si sente la mancanza di una forma più piena per quella vita. L’assenza di un luogo capace di comprenderla, di ospitarla.

Nel loro Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione, descrivono quello che è il fregio: “Come un nastro. Non è un quadro. Non ha cornice. Ma come un film scorre in movimento. Ha una direzione. Un passo. Un ritmo. Non è solo un’opera sul tempo. È anche un’opera nel tempo e con un tempo.”

Ed è proprio il processo temporale interno all’opera, il ritmo e il passo, uno degli aspetti maggiormente curati e significanti. Un ciclo, diviso in capitoli, ognuno dei quali con una sua estensione temporale. L’immagine è spesso rallentata, a cercare una composizione del tempo che ponga l’osservatore di quell’immagine in una prospettiva che ne faccia comprendere la dimensione tragica di quanto raffigura. In questo modo, assiema al colore desaturato, la posizione della macchina da presa che rimanda a uno sguardo terzo – facilmente assimilabile come proprio dallo spettatore – il regista Simone Derai, insieme alla fotografia di Giulio Favotto, sovente riesce a restituire il sapore massimo di ogni immagine.

Compiendo il viaggio, sostando con lo sguardo nelle sue tappe per comprendere quanto abbiamo accanto ogni nostro giorno, si può vedere come l’uomo abbia dimenticato che scienza e arte non abbiano importanza in sé, ma come scrive Simone Weil: “Ciò che è sacro nella scienza è la verità. Ciò che è sacro nell’arte è la bellezza”.

Nella produzione e nello sviluppo scientifico slegato da una verità e in un’arte sfoggiata senza un’attenzione per il significato della sua bellezza, ecco risiedere quanto genera le storture via via mostrateci.

La perdita del sacro e delle sue forme, e così appaiono – fuggevoli e compresse rispetto al resto – le forme di devozione sacre delle varie religioni, raccontate in una sequenza tutta velocizzata, in un turbinoso montaggio di pratiche e rituali che nel loro accostamento mostrano come il velare e lo svelare, l’echeggiare di una campana, l’inchino, la prostrazione, l’incenso e l’abito: il colore; il canto, il movimento: la danza, la rotazione; siano universali, ovvero cosmici: che rimandano ad un ordine di bellezza sempre valido e ovunque riconosciuto come vero. Così a San Lazzaro degli Armeni a Venezia, nei templi induisti dell’India, in Medio Oriente nel tempio di un tappeto.

Nel finale, dove si mostra come l’uomo voglia soggiogare alla tecnica anche l’eros più ferino, appare la nevicata di ubertosi pollini destinati alla libera fecondazione di una terra sofferente ma viva che ci riporta attraverso l’immagine alle parole, qui assenti ma comunque udibili, di un’opera precedente degli Anagoor, dove ci ricordavano che: “Tutto era salvato, perché niente era andato perduto”.