Scritto da Jacopo Renzi

Pubblicato il 15/12/2020

Per parlare del cinema africano ritengo opportuno delineare certi modelli caratteristici del continente, non degli stati nazione o dei raggruppamenti linguistici coloniali, ma di tendenze culturalmente più definite. I critici occidentali si sono avvicinati da molto tempo al cinema africano da prospettive tematiche a scapito di approcci più formali. Ci sono molte ragioni per questo, non ultimo l’effetto del primo incontro tra cinema e Africa, basato sulla proverbiale funzione didattica del cinema incoraggiato dalle autorità coloniali. Il cinema africano nell’immediato post-indipendenza ha spesso  lo stile del cinema didattico istituito durante il colonialismo. Questo tipo di produzione cinematografica spesso enfatizza i contenuti sulle influenze e gli stili artistici e culturali. Quanto presento qui è un semplice tentativo di far conoscere e incuriosire i lettori su un cinema troppo spesso ignorato, se non snobbato.

In passato, il cinema africano è stato interpretato dalla critica come un discorso cinematografico compreso storicamente ma definito artisticamente: un cinema che si occupa di realtà portate alla luce più da una visione del mondo implicita che da tecniche formali. I film africani sono presentati come “africani” perché riflettono le condizioni africane e i critici hanno discusso il contenuto dei film come lo scopo definitivo della produzione cinematografica nel continente. Ad esempio, Xala di Sembène Ousmane è descritto come “un racconto morale”, di conseguenza politico. La natura retorica del film è considerata la qualità che lo definisce. Inutile dire che, per comprendere il film africano, è imperativo mettere in relazione le dinamiche della cultura con il periodo della sua produzione. Ciò significa mettere in relazione il film con le relazioni sociali ambientali, le pressioni storiche e le innovazioni tecnologiche, nonché le credenze, gli atteggiamenti e le concettualizzazioni del popolo africano.

Cairo Station di Youssef Cahine. Film degli anni ’50, rappresenta una delle più grandi svolte della filmografia africana, ottenendo notevole successo in Occidente

Il cinema arrivò in Senegal già nel 1902 con la proiezione di L’innaffiatore innaffiato (l’iconico film dei Lumière) a Dakar. Con il sonoro nel cinema, nel 1927, i francesi, consapevoli che il cinema poteva essere influente sulle masse, emanarono una legge per controllare la produzione e la diffusione nelle sue colonie dei film. Così, nel 1934, l’allora governatore delle colonie, Pierre Laval, firmò un decreto che divenne celebre come il “decreto Laval” che richiede il permesso del governo francese per poter girare e mostrare film nelle colonie e vietare ai colonizzati di fare film autonomamente. Il decreto rimase in vigore fino al 1960, quando le colonie divennero indipendenti. Non sorprende quindi che Borom Sarret (1963) di Ousmane Sembène sia generalmente associato alla nascita del cinema africano subsahariano. Seppure Sembene sia accreditato come il primo africano nero ad aver girato film in Africa, bisogna comunque riconoscere che i francesi hanno girato un certo numero di film nelle loro colonie; film che per la maggior parte sono frutto  della mentalità colonialista nel loro rappresentare le persone colonizzate in modo umiliante.

Ousmane Sembène

Il primo film africano ad ottenere un riconoscimento internazionale è stato La Noire de…, sempre di Sembène Ousmane, noto anche come Black Girl. Vincendo il Prix Jean Vigo nel 1966. Inizialmente scrittore, Sembène si era rivolto al cinema per raggiungere un pubblico più ampio. È ancora considerato il “padre del cinema africano”. Il Senegal, luogo di nascita di Sembène, ha continuato a essere il paese più importante nella produzione cinematografica africana per oltre un decennio. Negli anni Ottanta e Novanta, è possibile osservare come il cinema africano riesca ad emergere sempre più, uscendo dal continente per raggiungere l’Europa. Con Souleymane Cissé, regista malese, l’Africa porta il suo primo film a concorrere per la Palma d’Oro a Cannes nel 1987 con Yeelen. A seguire, negli anni Novanta, ci sarà un’escalation di produzioni a basso costo in Nigeria (complice l’arrivo del mezzo video dall’Occidente), che porterà alla “creazione” della cossiddetta Nollywood.

Scena da “Black Girl” di Sembène Ousmane

Ultimo, ma assolutamente non meno importante, sono le donne registe che hanno saputo usare il mezzo cinema per raccontare l’Africa. Riconosciuta come una delle pioniere del cinema senegalese e del cinema africano, Safi Faye è stata la prima regista donna africana a ottenere un riconoscimento internazionale. Kaddu Beykent (Letter from My Village), il primo lungometraggio di Faye, è uscito nel 1975. Faye ha continuato ad essere attiva con diverse opere pubblicate nella seconda metà del dagli anni ’70 fino al suo ultimo lavoro, Mossane, del 1996. Assolutamente da citare è la giovane Wanuri Kahiu, regista keniota, conosciuta per il suo film From a Whisper, premiato come miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior film agli Africa Movie Academy Awards nel 2009. Quasi 10 anni dopo l’uscita di From a Whisper, Kahiu firma la sceneggiatura di Rafiki, un dramma romantico di formazione su due ragazze adolescenti nel Kenya contemporaneo. Il film fece parlare di sé, in parte per la sua selezione al Festival di Cannes, ma anche per la sua esplorazione della sessualità e temi LGBT, non in linea con le opinioni a riguardo del governo keniota. 

Safi Faye
Wanuri Kahiu

Sarah Maldoror, regista francese e figlia di immigrati dalla Guadalupa, è stata riconosciuta come una delle pioniere del cinema africano. È la fondatrice di Les Griots (The Troubadours), la prima compagnia teatrale in Francia realizzata per attori di origine africana e afro-caraibica. Nel 1972, Maldoror ha girato il suo film Sambizanga sulla guerra del 1961-74 in Angola. Sarah ha anche lavorato come assistente alla regia in La battaglia di Algeri (1966) del regista Gillo Pontecorvo. Purtroppo la Maldoror ci lascia nell’aprile 2020, all’età di 90 anni, ennesima vittima della pandemia da Covid-19. 

Sarah Maldoror

Infine è opportuno citare l’importanza dei festival dedicati al cinema africano presenti non solo nel continente nero ma nel mondo. L’African Film Festival (AFF) di New York, fondato nel 1990, è uno dei festival più prolifici; ha come scopo non solo la diffusione della filmografia africana, ma promuove soprattutto la comprensione delle culture africane attraverso i film. Il Rwanda Film Festival, conosciuto anche con il nome di Hillywood, ha ottenuto riconoscimenti in tutto il mondo negli ultimi anni ed è diventato uno dei principali eventi cinematografici dell’Africa. Ma ancora più riconosciuto a livello internazionale è il FiSahara, ovvero il Sahara International Film Festival, un evento annuale che si svolge nei campi profughi saharawi, nell’angolo sud-ovest dell’Algeria, vicino al confine con il Sahara occidentale. È l’unico festival cinematografico al mondo che si tiene in un campo profughi. Il festival ha attirato il sostegno delle celebrità del cinema spagnolo, tra cui Penélope Cruz, suo marito Javier Bardem e Pedro Almodóvar. Nonché di musicisti come Fermín Muguruza, Manu Chao, Macaco, i quali si sono esibiti in concerti durante il festival.

Sahara International Film Festival

Ciò che rimane da questi “appunti”, o ciò che conta di più, non è la territorialità, l’etnia, la politica o l’autenticità di una particolare cultura. Perché le questioni di linguaggio, discorso e forma, richiedono necessariamente di guardare oltre uno qualsiasi di questi concetti, ricordandoci che quello che osserviamo attraverso lo schermo (cinematografico e non), è soltanto una realtà leggermente più lontana da noi, ma incredibilmente vicina.