Il mondo si divide in due categorie di persone. Quelle per cui una pesca è solo una pesca, e  Crema è solo Crema, una piccola cittadina che ospita poco più di trentamila anime in provincia di Cremona, in Lombardia. E quelle per cui Crema non si trova in Lombardia, bensì “somewhere in Northern Italy”, e rappresenta una meta ambitissima, una sorta di luogo di pellegrinaggio a cui dedicare una giornata di pedalate in bicicletta, tuffi nei laghetti circostanti e Instagram stories il cui geotag sarà rigorosamente quello appena citato. Ecco, se non sapete a cosa diamine ci stiamo riferendo, leggete ancora: potreste scoprire un’opera che ha molto da dire, nonché appuntarvi un’idea per la prossima gita fuori porta. Se appartenete alla seconda categoria, quanto segue potrà suonare piuttosto familiare ma, ehi, un bel ripasso di storia non ha mai fatto male a nessuno. 

Stiamo parlando di Chiamami col tuo nome (Call me by your name, 2017) di Luca Guadagnino, tratto dal romanzo omonimo di André Aciman e terzo titolo della sua trilogia del desiderio dopo Io sono l’amore e A Bigger Splash. Vero punto di svolta nella carriera del regista palermitano, il cui talento fino a quel momento era stato apprezzato da una fetta di pubblico piuttosto ristretta, mentre con Chiamami col tuo nome è arrivata la consacrazione sia da parte della critica che da parte del grande pubblico. Questo piccolo film girato in poco più di un mese e costato nemmeno 4 milioni di dollari, ha raccolto consensi sin dal suo debutto al Sundance film festival del 2017, passando anche per Berlino, Toronto e New York, per poi arrivare, ovazione dopo ovazione, alle quattro nomination agli Oscar dell’anno successivo. I cineasti Xavier Dolan, Paul Thomas Anderson e Pedro Almodovar (non proprio gli ultimi degli esordienti, insomma) lo hanno definito il miglior film del 2017. Nel frattempo, qualunque spettatrice o spettatore sotto i quarant’anni si innamorava di Timothée Chalamet, allora poco più che ventenne,  e del suo dolcissimo Elio, protagonista del film magistralmente interpretato. 

Si tratta di una follia collettiva, oppure stiamo parlando di uno dei film più belli degli ultimi dieci anni? Secondo chi scrive, la seconda, ma procediamo con ordine. 

Estate 1983, da qualche parte nel nord Italia. Il diciassettenne franco americano Elio Perlman trascorre le sue giornate oziose nella grande casa delle vacanze di famiglia. Legge vecchi libri, trascrive musica, esce ogni tanto con gli amici di sempre, aspetta che l’estate finisca. Almeno fin quando non arriva Oliver (Armie Hammer) ventiquattrenne americano ospite del padre, professore di archeologia (un magnifico Michael Stuhlbarg), per completare la sua tesi di dottorato. Oliver è bello, altissimo, dal fisico scolpito come i corpi delle statue di età ellenistica che accompagnano i titoli di testa del film. Piace a tutti: i genitori di Elio lo adorano, le sue amiche fantasticano su di lui, ed Elio stesso, nonostante la diffidenza iniziale – l’usurpateur, dice osservando il suo arrivo dalla finestra –  ne subisce il fascino sin da subito. E quella fascinazione poco convinta, frenata dall’apparente arroganza iniziale del bell’americano, si trasformerà presto in attrazione, desiderio, tormento. All’inizio tra i due sembra avere la meglio una barriera di fraintendimenti e incomunicabilità, e il giovane Elio si rifugia infatti tra le braccia dell’amica di lunga data Marzia (Esther Garrel), che sfrutta anche come pretesto per pavoneggiarsi con Oliver delle sue imprese sotto le lenzuola. Poi, a poco a poco, tra pedalate in bicicletta nelle campagne cremasche e tuffi in piscina per ingannare il torrido caldo estivo, Elio e Oliver passeranno sempre più tempo insieme, per poi lasciarsi travolgere da baci appassionati sul prato e appuntamenti segreti a mezzanotte dove si spoglieranno a vicenda, faranno l’amore e si chiameranno l’uno col nome dell’altro. 

Potremmo partire proprio da questa scena, che è una delle più belle e importanti di tutto il film, per parlare dell’eleganza dello stile registico di Guadagnino. La macchina da presa segue dolcemente i corpi dei due ragazzi, si sofferma sui dettagli, poi prende di nuovo le distanze, a un certo punto sposta l’attenzione sui grandi alberi fuori dalla finestra, testimoni silenziosi e solenni di questo amore timido e ardente al tempo stesso, per poi mostrarci ancora i corpi di Elio e Oliver avviluppati in un tutt’uno. Ogni cosa sembra essere esattamente al suo posto, la composizione delle immagini, in questa scena come nel corso dell’intero girato, restituisce sempre un senso di rassicurante naturalezza, e mai di artificio. 

Uno dei grandi meriti di Chiamami col tuo nome, infatti, è che tutto funziona alla perfezione perché il lavoro di ogni reparto è stato incredibilmente accurato. L’adattamento di James Ivory (sceneggiatura che è stata poi aggiustata dallo stesso Guadagnino) riesce a sfatare il mito del “il libro è sempre meglio del film”. La scrittura è solida, fluida, ogni dialogo è incisivo senza mai risultare banale né ridondante, e se nel libro il tormento di Elio viene descritto da pagine su pagine di flussi di coscienza, nel film si lavora per sottrazione, e spesso si preferisce che siano le immagini a parlare – uno sguardo, un movimento delle mani, un gesto – piuttosto che ai personaggi. Ingrediente fondamentale è anche la colonna sonora, scelta minuziosamente, dove brani iconici degli anni Ottanta pescati dagli ascolti dell’adolescenza di Guadagnino, come Love My Way degli Psichedelic Furs e Radio Varsavia di Franco Battiato, si alternano a dei bellissimi pezzi al piano (tra gli altri, John Adams e Ryūichi Sakamoto), e ancora alle canzoni originali di Sufjan Stevens scritte appositamente per il film, Mystery of Love e Visions of Gideon, che si sposano alla perfezione con i fotogrammi che accompagnano – indimenticabile la sequenza dove Elio e Oliver trascorrono una delle ultime giornate assieme a ridere e rincorrersi ai piedi di una cascata. 

Scenografia e costumi, ancora, sono studiati nei minimi dettagli, per far immergere lo spettatore in quell’estate del 1983, tanto da renderne nostalgiche anche le generazioni che non hanno mai vissuto quegli anni. Le atmosfere tipiche della stagione estiva trasudano da ogni singolo fotogramma, la cui palette di colori caldi e lucenti, ma mai troppo saturi si rifà un po’ a quella dei maestri di Guadagnino, da Rohmer a Bertolucci. La direzione della fotografia è del tailandese Sayombhu Mukdeeprom, che tornerà anche nel successivo Suspiria. E che belle quelle colazioni in giardino al mattino presto a base di uova alla coque e succo fresco, i bagni in piscina e al lago, i costumi stesi ad asciugare, le pesche che crescono in giardino, il suono perpetuo delle cicale o del cinguettare degli uccellini. Durante la visione è inevitabile pensare, almeno una volta, “anch’io voglio passare l’estate in questa villa enorme, bellissima e un po’ decadente, a leggere, ascoltare musica, prendere il sole e fare il bagno – e anche l’amore”. 

E se la forma eccelle, ancor di più lo fa il contenuto. Chiamami col tuo nome è un piccolo viaggio, lungo il tempo di una vacanza estiva, dove Elio impara a conoscere non solo un’altra persona, non solo la misura del suo sentimento, ma soprattutto sé stesso. Anzi, la comprensione e la scoperta di sé avviene soprattutto grazie alla scoperta dell’altro. Non vi è nessuna retorica spicciola né la volontà che si gridi allo scandalo, nemmeno durante la scena, già iconica nel libro di Aciman, di autoerotismo con una pesca – piuttosto, un ringraziamento sentito da parte del fandom di Chalamet. Assistiamo solamente al ritratto sincero di due persone che si innamorano e che poi, dolorosamente, devono dirsi addio, allo scadere delle sei settimane di permanenza di Oliver a casa Perlman. Prima di innamorarsi si scrutano, si rincorrono, si fraintendono. “E’ meglio parlare o morire?” è una citazione da un libro tedesco che legge Annella, la madre di Elio, al resto della famiglia, ma è anche il dubbio che per giorni affligge il ragazzo, tormentato dal timore che quello studente americano così bello e sicuro di sé non possa in alcun modo ricambiare il suo interesse. Deciderà, poi, che è meglio parlare, rendendo noi spettatori, come quei grandi alberi del giardino di casa Perlman, testimoni di un amore così giovane, travolgente ed entusiasta, eppure al tempo stesso così fragile, così fugace. 

E poi, in quella che è una delle sequenze più belle del film, un Michael Stuhlbarg in stato di grazia ci ricorda di quanto sia importante abbracciare il dolore, senza respingerlo. Perché se c’è dolore significa che siamo vivi, che c’è stata un’emozione forte, e che la causa del nostro male in passato ci ha reso estremamente felici. Lo fa nel tentativo di rassicurare Elio, afflitto e con gli occhi pieni di lacrime a causa della recente partenza di Oliver. Il loro rapporto è bellissimo e sincero, e farebbe invidia a qualsiasi figlio alle prese con i propri drammi adolescenziali. “Rinunciamo a così tanto di noi per guarire più in fretta che finiamo in bancarotta a 30 anni”: prendere nota. Questa scena fa male perché sappiamo che è proprio così. Ma è talmente bella che alla fine sembra di ricevere un abbraccio, un balsamo lenitivo di quelli studiati apposta per pelli – cuori, in questo caso – sensibili. Un bacio sulla fronte da parte di una persona cara alla fine di un litigio. Chiamami col tuo nome è disponibile su Netflix. Se non lo avete mai visto, questa è la vostra occasione per recuperarlo. Se lo avete già visto, beh, potete rivederlo e farvi venire voglia di organizzare finalmente quella gita a Crema.

Scritto da Ambra Farinelli