Scritto da Valeria Vavalà

Pubblicato il 20/07/2020

Un paio di occhiali dalle lenti scure dietro le quali si cela un’espressione pacata, una sciarpa stretta al collo, le mani intrecciate. È un uomo di poche parole, Nuri Bilge Ceylan. Siede di fronte a me, sul palco di una sala del Multisala Massimo di Lecce. Accanto a lui, un altro esponente del cinema turco: Ferzan Özpetek, di gran lunga più disinvolto nei confronti del pubblico italiano, al quale si rivolge scherzosamente e sorridendo, dimenando le mani in una gestualità tale da dimostrare a pieno la sua acquisita “italianità”. Özpetek conosce la lingua e ha riscosso più cospicua fama nel nostro paese rispetto al collega. Ceylan, riservato, si serve dell’aiuto di una traduttrice, mentre resta avvolto in un alone di mistero, cosa che non sorprende chi – come me – ha appena avuto la fortuna di assistere alla proiezione dei suoi primi lavori, nel contesto della 18° edizione del Cinema Europeo di Lecce. 

Ferzan Özpetek e Nuri Bilge Ceylan

Dimenticatevi del Ceylan dai dialoghi barocchi de L’albero dei frutti selvatici (2018, selezionato per rappresentare la Turchia ai premi Oscar 2019 nella categoria Oscar al miglior film in lingua straniera) o de Il regno d’inverno (Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes del 2014). Nei suoi primi lungometraggi infatti a regnare sono il silenzio, la contemplazione della natura e dei ritmi delle stagioni, la descrizione di squarci di vita affascinanti e realistici nella loro crudezza e caducità, la predilezione per la descrizione a discapito della narrazione. Come in Uzak (2002, Turchia) in cui percepiamo la tensione fra i personaggi dai loro prolungati e sospesi silenzi, amplificati da lunghe inquadrature della neve che cade su Istanbul. Uzak è un termine che trova corrispettivo italiano nel vocabolo distante: è proprio la distanza fra i due protagonisti ad essere la costante del film e a dimostrarsi incolmabile. Yusuf giunge nella capitale dopo aver perso il lavoro in una fabbrica e si fa ospitare da suo cugino Mahmut, in crisi in seguito alla separazione dalla moglie. Si incontrano così i due uomini senza mai realmente incontrarsi, ognuno con un carico di paure ed insicurezze dietro le quali si nascondono e con le quali erigono muri. Yusuf infine si imbarca per avventurarsi all’estero mentre il cugino resta solo in città. Ceylan sceglie Mozart come colonna sonora di questi centodieci minuti di angosciante incomunicabilità.

Frame di Uzak

Altra opera del maestro turco ormai impressa nella mia memoria è Nuvole di Maggio (1999, Turchia), una poetica commistione tra finzione cinematografia e vicende biografiche, tra ambientazioni bucoliche e frenesia cittadina e moderna. Muzzafer, alter-ego di Ceylan, fa ritorno nel paese dell’Anatolia dove è cresciuto. Non si separa mai dalla sua videocamera, con la quale si reinventa regista sperimentando inquadrature che hanno come soggetti i suoi familiari ed il paesaggio turco primaverile. Nel frattempo si susseguono vari episodi: suo padre – i genitori del protagonista sono i genitori dello stesso Ceylan – lotta perché il lembo di terra da lui con cura coltivato non sia espropriato dalle autorità, mentre il cugino sogna invano di recarsi a Istanbul. Ha del fiabesco invece l’episodio del nipote di nove anni che per guadagnarsi un orologio musicale deve superare una prova dettatagli dalla zia: trasportare un uovo in tasca per quaranta giorni senza romperlo. Suggestive le scene di sperimentazioni di regia del giovane Muzzafer – o potremmo dire del giovane Nuri Bilge Ceylan? – regista in erba che si affaccia alla settima arte con l’entusiasmo e lo spavento di un dilettante che si confronta con un imbarazzante ventaglio di scelte e con il peso della storia del cinema prima di lui. Ma quale migliore soggetto della natura e delle vicende umane scandite dai ritmi di essa? Ceylan regala una Turchia profonda – come d’altronde fa magistralmente ne Il regno d’inverno -, una terra lontana dalle luci della città, scandita dalla lentezza, dai silenzi, dalla riflessione sulla vita. Riflessione che è punto cardine di un suo cortometraggio: Koza (Cocoon), 1995. Anche qui gli interpreti sono i suoi stessi genitori. Venti minuti in bianco e nero di immagini oniriche, senza dialoghi, ma intensamente emotive. Una coppia di anziani si ritrova dopo anni; sul loro incontro tuttavia gravano vecchie incomprensioni e dolorose esperienze del passato, drammaticamente insanabili. 

Frame di Nuvole di maggio

Come omaggio a Ceylan, il Festival di Lecce dedica una serata al maestro, occasione per ripercorrere la sua carriera e insignirlo del premio l’Ulivo d’Oro. Posso così continuare ad osservare il regista, mentre taciturno e pensoso accetta il premio. Il carattere misterioso e criptico del regista si rivela così coerente con tutta la sua opera, fatta da una parte di pesanti silenzi carichi di significati, e dall’altra di castelli di dialoghi che nella loro insormontabile incomunicabilità ci rendono distanti piuttosto che avvicinarci.