Quando ci si riferisce alla celebre cultura di controtendenza che ha caratterizzato gli Stati Uniti d’America fra la fine degli anni sessanta e la maggior parte degli anni settanta, molti di noi hanno scolpito nella mente uno dei film che più ha generato il desiderio di ribellione e libertà nei cuori di molti sessantottini: mi riferisco a Easy Rider-Libertà e paura. La pellicola, simbolo del movimento della Nuova Hollywood, è l’incarnazione della trasgressione giovanile per eccellenza: i due protagonisti sfrecciano per tutto il film su delle moto Chopper, partendo dalla California e arrivando fino in Louisiana. La loro ribellione alla routine medio-borghese americana di quegli anni non si limita semplicemente all’elevato consumo di alcol e droghe psichedeliche; il loro anticonformismo è molto più profondo e radicato, non concerne solo in uno stile di vita bohemien bensì in una visione nuova del mondo, che sarà poi quella portavoce della generazione hippie americana. Wyatt, detto “Capitan America”, e Billy (rispettivamente Peter Fonda e Dennis Hopper), raccontano allo spettatore una ribellione che si fonda su toni profondamente esistenzialisti. Nell’incipit vediamo i due protagonisti – prima di iniziare la lunga traversata in sella alle loro moto – fermarsi in mezzo al deserto per gettare via i loro orologi: gesto che indica come il viaggio si collocherà al di fuori del tempo, ovvero oltre i ritmi canonici cadenzati dalla routine di una vita tanto sana quanto borghese ai loro occhi, priva di un vero valore e contenuto ed alimentata solo dall’abitudine della ripetizione. Come dono alla dea libertà viene qui sacrificato il tempo: “Get your motor runnin’, head out of the highway, looking for adventure, in whatever comes our way, yeah darling gonna make it happen, take the world in a love embrace”, sono le parole che vibrano per tutto il film al suono di Born to be wild degli Steppenwolf, colonna sonora del film e canzone inno alla libertà più assoluta.

Che c’è di male nella libertà? La libertà è tutto”, ribadisce Wyatt ad un bizzarro avvocato alcolizzato, interpretato da un magistrale Jack Nicholson, durante una notte infuocata nel deserto a fumare marijuana sotto le stelle; ed è proprio quest’eclettico personaggio, inaspettatamente, a dare alla storia una visione della realtà più malinconica e disillusa. Durante quella sera, infatti, egli risponde a questa provocazione con uno fra i monologhi più celebri del film: “Ah sì, è vero, la libertà è tutto, d’accordo… ma parlare di libertà, ed essere liberi, sono due cose diverse. Voglio dire, che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da far a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà”.

Queste parole per il successivo svolgimento del film assumeranno un tono profetico, poiché questa insaziabile sete di libertà porterà i due protagonisti a diventare da paladini a schiavi della trasgressione: ciò che inizialmente era la tensione che muoveva il motore delle loro anime (e, metaforicamente parlando, delle loro moto), ne diventerà, a malincuore, il loro progressivo annichilimento.

Scritto da Francesca Pascale