Quando lo scorso gennaio sono state rese note le nomination agli Oscar da parte dell’Academy, leggere il nome di Paul Mescal nella categoria del miglior attore protagonista è stata una piacevole sorpresa. Se la vittoria, seppur meritatissima, di Brendan Fraser per il suo ruolo nel The Whale di Aronofsky era sostanzialmente data per certa sin dalla première alla Mostra cinematografica di Venezia, non era affatto scontato che una produzione piccola come quella di Aftersun attirasse le attenzioni dell’Academy. Va detto che il lungometraggio d’esordio di Charlotte Wells ha ottenuto da subito un enorme successo sia di critica che di pubblico, pur essendo stato distribuito in pochissime sale: premiato durante la Settimana della Critica a Cannes e con moltissimi altri riconoscimenti (31 premi su oltre 120 nomination), è stato indicato da MUBI come il film più visto di sempre sulla piattaforma. Durante il suo breve corso di vita si è già imposto come un piccolo cult per le nuove generazioni, costituendo un fenomeno che potremmo definire quasi virale. Ma come mai?

La forza di Aftersun risiede nel suo essere un racconto personalissimo, ispirato ai ricordi d’infanzia della regista, e universale allo stesso tempo, messo in scena con estrema e disarmante sensibilità. L’undicenne Sophie (Frankie Corio) e l’amorevole padre trentenne Calum (un Paul Mescal magistrale) trascorrono insieme le vacanze estive in Turchia, in un hotel accogliente ma dalle basse pretese. La complicità tra i due si percepisce sin dal primo fotogramma, e questa si serve spesso anche solo di un gesto del corpo o di un incrocio di sguardi. L’ambientazione è squisitamente anni ‘90 e tutto richiama quell’estetica pre-social media e dal sapore analogico di cui oggi è molto facile sentirsi nostalgici: la piccola videocamera per riprendere il filmato della vacanza, i walkman per ascoltare la musica, i videogiochi a gettoni, i coloratissimi cocktail a base frutta esotica. E proprio la videocamera ha un ruolo fondamentale nella costruzione della storia: mezzo per imprimere nella memoria ricordi che rischierebbero altrimenti di svanire, ma anche strumento utilizzato nel tempo presente dalla Sophie adulta che, il giorno del suo compleanno, decide di rivivere quella vacanza, probabilmente l’ultima trascorsa assieme al padre, guardando il vecchio filmino. 

Aftersun, così, gioca stratificando livelli narrativi differenti, e mescola il punto di vista di Sophie, ora ingenuamente bambina, ora irrimediabilmente adulta, a quello di Calum. La sua premura più grande è quella di nascondere alla figlia un tormento di cui non conosciamo bene l’origine, ma che percepiamo costantemente, grazie a piccoli indizi sparsi qua e là che diventano sempre più frequenti. Sigarette fumate di nascosto, mosse di tai-chi sul balcone per trovare un po’ di pace, un pianto liberatorio soffocato nella notte. O come quando Calum dice all’istruttore di diving, prima di un’immersione subacquea, di non riuscire a immaginarsi a 40 anni: è già sorpreso di essere arrivato ai 30. Giovanissimo per essere padre di una bambina undicenne, tanto che alcuni ragazzi li scambiano per fratello e sorella, eppure non abbastanza per avere quella spensieratezza che invece sembra appartenere alla figlia. “Puoi essere chi vuoi. Tu hai tempo” le rivela durante uno dei preziosi momenti insieme – con le dolcissime note di Tender dei Blur in sottofondo – come se lui al contrario di tempo non ne avesse più, o almeno non abbastanza. 

Charlotte Wells conosce bene la forma a cui somigliano i ricordi di infanzia, ed è bravissima a trasporre le sensazioni che ne derivano in immagini: fuori fuoco, giochi di riflessi, strette frequenti sui dettagli, e l’espediente del found-footage che rende i fotogrammi meno nitidi. Tutto è estremamente credibile, e il tempo, seppur sia un tempo della memoria, viene scandito proprio come accade nella realtà anche dai non-eventi, dagli spazi lasciati vuoti e dai non detti. Spazi che servono anche a noi spettatori per cucire insieme i pezzi – oltre che le nostre ferite – e visualizzare meglio quel ponte sottile intangibile tra passato e presente.

Finché, sulle note di Under Pressure dei Queen e al suono di “this is our last dance”, in quella che probabilmente è la scena più bella e intensa del film, capiamo che quel tempo dolcissimo è davvero scaduto e che, in un tempo altro di cui non sappiamo nulla, il peso che già affliggeva Calum durante quella vacanza diventerà troppo ingombrante, insostenibile. Nonostante l’amore sconfinato provato nei confronti della figlia, che proprio quell’ultima sera gli rivela quanto sarebbe bello prolungare il loro soggiorno in Turchia. 

Come recita un articolo su Rivista Studio, Aftersun è un film bellissimo, ma che fa molto male. È come una lama che con fare delicato ti trafigge piano piano, e di cui non ti accorgi subito. Il dolore arriva dopo, forte, quando ormai il taglio è profondo. E proprio come la crema doposole che Sophie e Calum si spargono a vicenda, è anche una carezza che lenisce quella stessa ferita. Ed è un film che non finisce con i titoli di coda: ti rimane attaccato addosso, proprio come quando, dopo una giornata al mare, i granelli di sabbia si mescolano con la salsedine e diventano difficili da togliere, anche con una bella doccia. Perché Aftersun vive dei contrasti che trovano rifugio dentro ciascuno di noi. Ci ricorda di quanto sia importante conservare i momenti felici in un luogo sicuro, come una vecchia videocamera anni ‘90 o una polaroid sbiadita. Ma ci parla, nello stesso, dolcissimo istante, dell’atrocità della perdita e di quei vuoti, tremendi, che resteranno per sempre incolmabili.

Scritto da Ambra Farinelli