Se penso a nuove partenze, certo, sogno un mondo senza covid, ma se estendo questa idea all’ambito di cui ci occupiamo, il cinema, mi viene in mente l’ultimo lavoro di Ryusuke Hamaguchi, uscito nelle sale proprio qualche mese fa. 

Tratto da un racconto inserito nel romanzo Uomini senza donne di Haruki Murakami, Drive my car va visto (e con pazienza).

Il protagonista è Kafuku, regista di indiscusso talento, che accetta di dirigere a teatro lo Zio Vanja di Cechov per riprendersi da un episodio drammatico.

Sia Kafuku che Vanja non sono riusciti a rivolgere alla persona che amavano le domande più pressanti e, con questo rimpianto, si trovano a dover ricominciare una nuova vita. 

A Hiroshima, dove si trasferisce per gestire il laboratorio teatrale, il regista lavora all’allestimento dello spettacolo insieme al suo cast. 

Abituato a memorizzare le proprie battute durante lunghi viaggi in auto, Kafuku si trova costretto a dover condividere l’abitacolo con una giovane autista, cosa che il regista accoglie con un’iniziale forte riluttanza ma che poi, pian piano, lo accompagna in un percorso di esplorazione di sé. 

Che dire dunque di questo film?

Innanzitutto non è un racconto che può essere ridotto a un dramma sentimentale: si farebbe torto a un’opera molto ambiziosa che già dall’inizio destruttura la propria narrazione per configurarsi come una riflessione sul cadere e il riavviarsi, sulla (in)comunicabilità e sul rapporto tra passato e futuro.

Gli spettacoli che Kafuku mette in scena, ad esempio, sono caratterizzati da un espediente bizzarro: gli attori parlano lingue diverse, tra loro una ragazza è addirittura non udente, cosa che tra l’altro risulta fondamentale per la riuscita dello spettacolo. 

Non a caso il dramma scelto è lo Zio Vanja di Cechov, dove l’incomunicabilità tra i personaggi emerge da dialoghi spesso sconclusionati.

Altro scenario che richiama questa dimensione comunicativa è il rapporto solido ma paradossalmente ambiguo tra Kafuku e la moglie, o la relazione che poi si instaura tra Kafuku e Misaki, la sua autista.

Nonostante non parlino quasi mai, la facilità di conversazione – o meglio, della non conversazione – porta i due a scoprire l’uno nell’altro una famiglia alternativa, in un rapporto padre-figlia.

Questo film, comunque, non è solo un film sulla comunicazione nel suo significato più ampio e profondo. Drive my car è anche un’opera che presenta una fotografia e una scenografia delicate, che lavora su continui campo-controcampo, lasciando da parte il lato più tecnico e visivo per concentrarsi sui volti, il tutto con un ramificazione metacinematografica.

Drive my car non è perciò un film per tutti. Non solo perché ha una durata di tre ore o per via della sua narrazione lenta: Ryusuke chiede allo spettatore piena disponibilità a immergersi nella storia e a fare i conti con un linguaggio nuovo e assoluto, fondato sulla performance e sull’enigma che si cela dietro gesti, parole e silenzi. 

Questo però non vuol dire che Drive my car non lanci un messaggio a chiunque: è un inno alla speranza per un futuro rinnovato, un invito all’abbandono delle proprie diffidenze per affidarsi all’altro o, ancora, uno sprono a risanare le proprie ferite grazie a chi sa offrire il proprio ascolto.

Scritto da Silvia Lo Castro