Scritto da Redazione

Pubblicato il 17/09/2020

“La quantità ha modificato la qualità, come ci ha mostrato Hegel, ben prima di Marx. La produzione seriale di immagini ha dissolto l’immagine, le sue qualità simboliche. L’iperproduzione ha creato svalutazione. […] Il solo gesto possibile è dividerle, selezionarle, sceglierle, farne proprie quanto basta, utilizzarne un numero sufficiente per farci qualcosa”. 

Questo pensiero del filosofo Federico Ferrari di poche settimane fa è una buona introduzione alla regista Esfir Šub. Dividere, selezionare, scegliere e fare proprio quanto basta è il suo metodo. Un metodo che porta, lei che ha iniziato come montatrice, alla composizione di quei film con materiale di riuso, di archivio, che l’hanno resa una delle registe più importanti del cinema sovietico dal finire degli anni ‘20 in poi. Dividere da un catalogo di innumerevoli immagini filmate quelle che si ritengono utili, quindi selezionarle mettendole in dialogo tra loro fino a sceglierle sapendo contenersi, avere un metro, un ritmo – una metrica quindi – togliendole dal primordiale contesto per riattualizzarle facendole proprie per uso e visione affinché siano qualcosa. Siano qualcosa di nuovo, un problema che l’immagine incontra da quando la sua ri-produzione ha posto in questione la sua qualità.

Così almeno per i suoi primi lavori, quali La caduta della dinastia dei Romanov, La Russia di Nicola II e Lev Tolstoj e Oggi.

Dopo queste prime opere, in cui dimostra il suo talento e che forse sono quanto più occorrono al nostro sguardo, ha la possibilità di realizzare un documentario fin dalla fase delle riprese. Così, nel 1932, gira K.Š.E. Komsomol – Šef elektrifikacii; dove vengono narrate le grandi opere messe in opera per l’elettrificazione dell’Unione sovietica, dalle fabbriche di lampadine, la messa in funzione di turbine, la costruzione di dighe e centrali idroelettriche. In realtà, come mostrano i primi minuti, il fulcro del film pare l’indagine sul cinema stesso e le sue trasformazioni piuttosto che quelle dell’elettrificazione, o perlomeno gli sviluppi dei nei due campi in pari passo. Difatti la prima parte del documentario è tutto un raccontare come il film viene realizzato e in particolare nel suo aspetto sonoro. Si è appunto all’inizio del sonoro registrato in sincrono, circa un anno prima il regista Dziga Vertov aveva realizzato il pionieristico Sinfonia del Donbass, in cui sperimenta da par suo le possibilità del sonoro in sincrono, una novità appena importata dall’industria cinematografica occidentale.

Una novità indagata anche dall’altro grande nome del cinema sovietico, Sergej Ejzenštejn. Negli scritti di quegli anni, a proposito delle possibilità del sonoro ne evidenzia le possibili applicazioni e i rischi. Il rischio maggiore, simile a quanto paventerà a proposito del colore nel cinema, è di una eccessiva tendenza al mimetismo naturalistico, alchè come rimedio l’utilizzo del sonoro in modo contrappuntistico rispetto all’immagine, un antinaturalismo prospettato anche per l’utilizzo del colore che non vanifichi le possibilità offerte dal cinema come mezzo estatico anziché mimetico inficiando le sue possibilità espressive.

Tra l’altro, il punto di contatto con Ejzenštejn si può far risalire ad un loro comune iniziatore, il regista di teatro Vsevolod Mejerchol’d. Discorso che potrebbe poi portare al LEF, Il fronte di sinistra delle arti, ma è forse bene tornare al film.

Si vedeno all’inizio del film della Šub i metodi di registrazione dell’orchestra, il suono impresso sulla pellicola, radio, telefoni: una collezione di voci e lingue differenti in una palese esposizione di quanto permette la nuova tecnologia a disposizione. E sarà infatti una collezione di voci e lingue l’intero film: ingegneri, letterate, operai; russo, ucraino, armeno e americano – sì, l’elettrificazione in Urss avviene anche col supporto Usa oppure di uomini appartenenti al clero ortodosso, come padre Pavel Florenskij, categorie non troppo amate da lì a poco.

A far da ponte tra sonoro ed elettrificazione sono questi strumenti elettronici di produzione, diffusione e registrazione del suono, in cui forse il theremin è il più icastico.

Nei successivi capitoli del documentario si visitano fabbriche, si incontrano operai all’opera o in riposo, i comizi e le inaugurazioni – poca differenza fra i due. Il passaggio più suggestivo è quello relativo in Armenia, dove l’imponente diga in costruzione sul fiume appare come inglobata dalla forza della natura che l’elemento antropico vorrebbe possedere e far suo pur essendogli alieno. Naturale e artificiale e uomo e macchina in una relazione evidenziata in alcuni passaggi del film che rimandano di nuovo a Mejerchol’d e il suo teatro, ad Ejzenštejn e alcune sue celebri sequenze.

Esfir Šub, forse invisa alle autorità per una eccessiva attenzione dedicata al contingente americano impegnato in Urss, dopo questo documentario non avrà altre grandi possibilità di lavoro. Cinegiornali e soprattutto Spagna, un film sulla guerra civile spagnola, assieme ad altri documentari minori seguiranno senza le stessa rilevanza.