Scritto da Redazione

Pubblicato il 11/12/2020

Prostituzione, efebofilia, spaccio di droga, estorsioni, minacce, ricatti, incesto, stupro, incendio doloso, omicidio… Questi sono alcuni dei classici ingredienti che compongono il fondo su cui si costruiscono i film poliziotteschi; tutti questi si trovano nel film di Carlo Lizzani, Storie di vita e malavita, del 1975. Eppure l’idealtipo del poliziottesco non esiste come esemplare, è appunto un’astrazione che si costruisce sui casi mediani, quelli emblematici e le mode di alcuni film che in un determinato periodo, più o meno esteso, andando a comporre un macrocategoria utile per generalizzare, semplificare il discorso e trovare un’etichettatura con cui cucire più facilmente discorsi e rimandare specificazioni a momenti posteriori, se mai poi ci sarà occasione. C’è quindi il poliziottesco à Lucio Fulci, capace di una maggiore attenzione all’inquadratura e con una predilezione per i temi più gore; quello à la Umberto Lenzi ha un retroterra politico e più ampia capacità di analisi della cronaca dei suoi anni e se possibile è il più purista del genere; quello à la Fernando di Leo preferisce la trama noir. Queste sono a loro volta delle semplificazioni grossolane e che riguardano alcuni dei nomi di punta, a cui magari si potrebbe aggiungere Damiano Damiani e i suoi film con spesso una sottotraccia di spionaggio o contropotere che inevitabilmente rimanda a fatti della cronaca della republichetta italica ambita da più o meno seri gruppi cospiratori esterovestiti e golpisti borghesucci e solitari.

Tra tutte queste nuance si può un filo osare e così trovare anche il poliziottesco à la Lizzani, che predilige, in casi come Banditi a Milano o San Babila ore 20: un delitto inutile, basarsi sulla cronaca nera, seppur ricostruendola secondo gli stilemi del cinema noir o poliziottesco a seconda del tipo di storia; un suo noir mistico è forse il più tardo Mamma Ebe.

L’inchiesta giornalistica è alla base anche di Storie di vita e malavita, che per vastità, tenuta di tono e misura nelle intere due ore è probabilmente una delle opere più riuscite del regista. Il racconto senza mezzi termini del racket della prostituzione è l’unico incessante tema dell’intera sceneggiatura costruita per racconti che vanno a comporsi per sottili legami narrativi e appunto il comun denominatore della prostituzione nella Lombardia milanese-bergamasca capace di coinvolgere l’intero spettro delle fasce sociali. Infatti, in questo racconto a volte anodino a volte più partecipato a seconda della miglior resa recitativa o del maggior impegno di costruzione dell’intero impianto dell’episodio, si passa dalle catapecchie satellitari ai raccordi autostradali a palazzi delle nascenti downtown dalla e particolarmente aperte alla ville in campagna di chi ha già una posizione affermata e non deve – a differenza di chi si dristica in precari appartamenti condivisi (con la malavita) – angustiarsi tra le ristrettezze e convivenze cittadine: la prostituzione e la perversione  – o parafilia, se si preferisce… – appaiono come l’elemento interclassista par excellence – in quanto ognuno ha la propria e il grado di raffinatezza della perversione/parafilia segue giusto le possibilità di spesa: del tipo che ogni uomo si ciba: chi con posate d’argento chi con un panino nel cartoccio. Così la prostituzione d’alto bordo con donne battute – pardon – in aste per aggiudicarsi la visione del fiore della loro verginità si alterna a storie di ragazzine gestite dalla maitresse zia (che appare un po’ fattucchiera da favola dei Grimm) che la presta al primo camionista per tremilalire – ma attenzione, non dà resto. In quest’ultimo caso, che è anche l’ultimo e il primo episodio e fa da fil rouge nel nostro affresco a quadri, dove domina la tinta della malavita nel tema sempre presente di chi fa la vita, appare in ridondante evidenza l’irredimiblità di queste vite. Nell’ultimo racconto, dove ragazzina e zia si liberano del gruppo di bravi che vorrebbero prender in gestione la professione della ragazzina, questo fatto non porta ad alcun miglioramento del loro quadro di vita; libere da questi papponi più o meno sfigatelli la ragazzina tornerà a vendersi per mantenere il vasto parentato che pare avere nelle doti della giovane l’unica forma di sostentamento. E così sono le storie delle ragazze incontrate nel film; non c’è alcuna forma di possibilità, chi aiuta o tenta è quasi peggio del carnefice dichiarato; e soprattutto – forse la cifra di scarto maggiore tra il cinema di genere e quello di Lizzani – non c’è alcuna forma di eroismo e neppure il suo opposto in qualche antieroe a cui affezionarsi. Un po’ perché Lizzani  dalla scuola neorealista (lavora con Rossellini, basta questo in curriculum) ovviamente non ne esce senza strascichi, e perciò il racconto per quadri di realtà non può mai trovare un personaggio con cui il pubblico possa entrare in particolare vicinanza – anzi, quando succede, come in alcuni episodi di questo film, pare che il regista lo sappia e decida quindi di tagliar corto e passare al capitolo successivo per non farci troppo affezionare, e forse questo, per quanto voluto possa essere, appare per certi versi uno dei limiti del film. Un po’ perché nelle storie di Lizzani non c’è mai una sorta di emancipazione dalla dimensione tragica vissuta da queste donne; e non c’è mai ovviamente un eroe, o un deus ex machina, che possa ever il volto di un poliziotto o di qualcun altro capace di spezzare la catena di drammi. Così, come detto, anche quando appare che una ragazza, o con le proprie forze, o per una via molto personale di autogestione consapevole della professione, appaia liberarsi da una condanna ecco che ritorna ineluttabilmente nella catena malavitosa. Non c’è alcun epica nel racconto di Lizzani, solo la presa d’atto di una dimensione da cui non si può uscire e il racconto di questa. Emblematico in tal senso il penultimo episodio, in cui il racconto volge quasi a una rivincita della sfruttata, e diventa padrona degli uomini attraverso il sesso, ma il velo di apparente revanche cade presto – come in tutti gli altri casi precedenti – in un finale che tornerà inevitabilmente in mente quando sarà anni dopo il regista a morire, come successo anche con Fassbinder e il finale della sua Veronika Voss

Il poliziottesco di Lizzani è quindi la sua forma documentaristica, è un racconto di cronaca scritto con lo stile del noir. Dove trama e stilemi del film di genere servono per rendere da una parte meglio raccontabile quello che nel freddo verbale da questura appare quasi inaccettabile; dall’altro serveno per raccogliere un più ampio pubblico attorno alle forme più bieche del reale; che, nella dimensione etica dell’uomo Lizzani, non possono non essere condannate almeno dal cinema. Questa dimensione tra il documentario e il poliziottesco appare evidente più che altrove nella forma epigrammatica di un’altra opera di Lizzani, un cortometraggio capace di ben condensare questa polarità del suo cinema.

L’indifferenza, di una decina di minuti, è parte del film ad episodi Amore e rabbia, del 1969. Primo capitolo del lungometraggio, è ambientato in una caotica e sclerotizzata metropoli della east coast. Dettagli e campi lunghi, con una traccia audio quasi documentaristica alla maniera di Wiseman, dove il sonoro del luogo è la prima traccia di dialogo, si scambiano rapidamente con le soggettive e gli zoom. In questo continuo passaggio la sintesi tra gli stili dei due generi; inseguimenti, personaggi malavitosi, ferite sanguinolente, la polizia in azione, la violenza su donne oscillano tra il racconto descrittivo e documentaristico dell’indifferenza di una grande città e il racconto appassionante e iperbolizzato dell’action poliziottesco in cui se vi è critica alla società è data per racconto parabolico e non diretto. C’è in ultimo da notare che questo episodio – che come il film Storie di vita e malavita nasce da spunti e indagini giornalistiche – è parte di un film firmato da Bernardo Bertolucci; Pier Paolo Pasolini, che qualche anno prima fu anche attore per Lizzani; Jean Luc Godard e Marco Bellocchio. Piccola testimonianza di come in quel periodo ci fosse una proficua contaminazione tra quella che può essere la forma del cinema popolare e quella del cosiddetto cinema d’essai. Categorie, le due appena date, che forse appaiono astratte, quali semplificazioni, al pari di quanto detto sul poliziottesco.