Paolo Calabresi avrà avuto qualcosa da ridire vedendosi sottratto dagli artifizi digitali il ruolo, affibbiatogli invece da madre natura, di attore-gemello di Nicolas Cage in Adaptation (2002). Il film, scritto da Charlie Kaufman e diretto da Spike Jonze, è una commedia drammatica e biografica che vede come protagonista proprio lo stesso Charlie Kaufman – recitato per l’appunto da Cage – alle prese con il faticoso adattamento cinematografico del romanzo di Susan Orlean “The Orchid’s thief”.

C’è uno sdoppiamento in Adaptation, e non riguarda soltanto la duplicazione della cellula Nicolas Cage nei due gemelli Charlie e Donald Kaufman, entrambi sceneggiatori. Osservando più da vicino la struttura di questo meta-film, si nota come i due piani di reale e immaginario tendano a richiamarsi in modo costante: Charlie (personaggio) e la sua sceneggiatura (ancora da scrivere) si riferiscono vicendevolmente a Kaufman (reale) e alla sceneggiatura (finita) che guida la trama del film che guardiamo

In un momento in particolare il riferimento reciproco tra le due dimensioni di reale e fittizio sembra diventare anche collisione e interferenza. Per superare la crisi creativa, Charlie è volato a New York deciso a incontrare per la prima volta la scrittrice Susan Orlean (Maryl Streep). Durante il breve soggiorno coglie l’occasione per ascoltare il seminario del celebre guru della sceneggiatura Robert McKee (Brian Cox) su consiglio del gemello Donald. Quando Charlie prende posto in platea, però, non ascoltiamo la lezione di McKee. La presentazione è coperta dal turbinio violento dei pensieri di Charlie – al sapore di “What a fuck am I doing here?” – espressi tramite voice-over. Con questa tecnica di rappresentazione lo spettatore può sentire la voce del personaggio mentre nell’inquadratura quest’ultimo non apre bocca (come in questo caso) o è assente. 

Incalzato dai suoi stessi ragionamenti, Charlie giunge alla conclusione che è stato un errore venire al seminario e decide di andarsene. Quando però fa per alzarsi sull’ultimo pensiero in voice-over – “I should leave it right now, I’ll start over” – si gela improvvisamente. Tuonano sulla platea le parole di McKee, che rivolto all’intero pubblico, con mezzo volto illuminato dalle luci del proiettore, sentenzia come un emissario divino capace di valicare l’universo del fittizio per giungere a quello reale:

“…and God help you, if you use voice-over in your work my friends! God help you! It’s flappy, sloppy writing. Any idiot could use voice-over narration to explain the thoughts of the character”.                                       

Le due dimensioni di fittizio e reale si scontrano in quanto McKee (personaggio), col suo discorso, sembra andare a redarguire direttamente Kaufman (reale), contestando la sua decisione di sfruttare il voice-over per dare voce ai pensieri del suo protagonista. Ma la reazione di Charlie (personaggio) è di per sé significativa: folgorato da quelle parole, decide di rimanere ad ascoltare il resto della lezione, come se d’un tratto si sentisse colpevole di avere appena pensato in voice-over, o se, in un lampo di lucidità, si ricordasse delle sue fattezze di personaggio filmico piuttosto che di persona reale. 

Gli ammonimenti di un personaggio fittizio fatto e finito – quale è McKee – non condizionano solo Charlie (personaggio), ma, come già accennato, danno l’impressione di poter influenzare anche le intenzioni di Kaufman (reale). Si è portati infatti a supporre che possa aprirsi per Kaufman (reale) la possibilità di ripensarci prima di utilizzare ancora il voice-over, quasi ci fossero non una ma due sceneggiature che ancora devono essere scritte (quella fittizia e quella reale e finita). Lo spettatore, in tal maniera, è coinvolto nelle pieghe di un processo di costruzione creativa che non ha mai termine se non alla conclusione del film, e percepirà la contingenza e l’imprevedibilità dello sviluppo della trama con forza raddoppiata rispetto alla norma. Difatti non si chiederà solo quali potrebbero essere i prossimi eventi, ma – ad un secondo livello – si domanderà anche se Kaufman (reale) potrà magicamente cambiare in corso d’opera il modo di rappresentarli.                    

Okay, se vogliamo dirla tutta è più probabile che, in questi brevi minuti che sto sezionando, lo spettatore sprofonda nella poltrona (lo si immagina a casa in relax) non percepisce alcun finale aperto e contingente ma solo il trionfo dell’unto granuloso dei polpastrelli salati che, insaziabili, scavano sul fondo della busta delle tortillas. In ogni caso la stessa dinamica pare viva nelle scene finali. Charlie (personaggio) è al volante pronto per tornare a casa, felice perché finalmente sa come concludere la sua sceneggiatura. Come nel resto del film, l’accesso al suo flusso di pensieri è garantito dal voice-over. E ancora una volta i due piani di reale e fittizio entrano in contatto: sembra sia Kaufman (reale) a prendere parola per chiudere i conti lasciati in sospeso con McKee (personaggio). Solo ora, quando tutto finisce e ogni possibilità è stata già realizzata, siamo messi di fronte al fatto che il modus operandi di Kaufman (reale) – l’utilizzo del voice-over per rappresentare i pensieri di Charlie – è definitivo e non revocabile. 

“I know how to finish the script now. It ends with Kaufman driving home […] thinking he knows how to finish the script. Shit, that’s voice-over. McKee wouldn’t approve. How else can I show his thoughts? I don’t know. Well, who cares what McKee says? It feels right. Conclusive”.

Scritto da Paolo Mazzucotelli