Scritto da Jacopo Renzi

Pubblicato il 04/06/2020

La dicitura “un film de Gaspar Noé” è ormai diventato un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile. Sappiamo già che si andrà incontro a colori vibranti, colonne sonore fatte di suoni techno, house, minimal, sesso, violenza e inquadrature che si muovono in modo caotico. In questo articolo non voglio presentare la solita filmografia del regista, quanto più (provare a) proporre una riflessione sulla violenza, visiva e non, che Noé ha da sempre inserito all’interno delle sue opere. Prenderò in esame le pellicole che, a mio parere, hanno saputo mettere in luce questo aspetto.

Poster creato dal simpaticone Gaspar Noé


Sostenuto come un cineasta unico nel suo genere da alcuni, percepito come un semplice provocatore da (molti) altri, Noé rimane controverso ancora oggi come lo era quando è esploso sulla scena cinematografica due decenni fa, con il suo lungometraggio d’esordio I Stand Alone (1998) vincendo il premio della Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes.
Questa divisione nella critica può essere fatta risalire a due impulsi contraddittori che animano il lavoro del cineasta franco-argentino: da un lato, lo stile appariscente del cinema di Noé mostra un regista instancabilmente entusiasta delle possibilità del mezzo; dall’altro, i suoi film esplorano gli estremi della violenza, spesso lambendo il territorio nichilista. Il rapporto tra queste due pulsioni in conflitto genera sempre una sensazione di shock che non ha perso nulla della sua forza durante la carriera di Noé.
Ogni nuovo film di Noé offre un’occasione per rivisitare il perenne dibattito tra forma e contenuto, idee e sensazioni, solo per far crollare completamente queste divisioni. Nel cinema di Noé, la forma è il contenuto,
mentre le sensazioni sono indissolubilmente legate alle idee del film. Gran parte del lavoro di Noé pulsa per la tensione tra il desiderio di “godersi” un momento in tutta la sua intensità e l’impulso di potersi liberare da sé stessi. Questo concetto è perfettamente applicabile in Irréversible (2002): il film è montato in ordine cronologico inverso (tecnica adottata la prima volta da Jean Epstein nel 1927 con La glace à trois facce e divenuta famosa con Memento di Christopher Nolan) e ci mostra la storia di un uomo alla ricerca di una feroce vendetta nei bassifondi parigini. Inoltre, evidenzia i limiti della percezione umana e del controllo, presentandosi come il film più fatalista di Noé, con il suo design più nauseabondo: già nei suoi primi minuti è infatti presente un suono a bassa frequenza (infrasuono), noto per creare un senso di disagio e nausea negli ascoltatori. Pochi film hanno sfruttato meglio il potere del cinema di influenzare visceralmente in maniera così attiva. Irréversible si sente come naturale successore del debutto di Noé I Stand Alone: come la maggior parte dei suoi antieroi, il protagonista, interpretato da Vincent Cassel, è intrappolato tra la realtà del momento e la irrefrenabile ricerca di vendetta con unico mezzo la violenza. Noé evidenzia ripetutamente questo contrasto, costruendo intorno a lui il ritratto di un assassino. Mentre il film procede verso una escalation di violenza estrema (il culmine è una scena di violenza sessuale di ben 10 minuti, senza tagli), i nostri sentimenti di empatia e repulsione per il protagonista diventano sempre più complessi.

Frame di Irréversible e di QUELLA scena


Considerando l’aspetto cult che lo circonda, Enter the Void (2009) rappresenta forse la prova più convincente del regista Gaspar Noé. Un film formalmente vistoso e visionario, un’esperienza visiva e uditiva unica: letteralmente “immersiva” per lo spettatore, bombardato per più di due ore da luci al neon e soluzioni visive tanto originali quanto estreme. Una storia d’amore fraterno tra Oscar e Linda, in una Tokyo come “sotto acidi”: tutta luci al neon e insegne luminose. I due, benché fratello e sorella, sono uniti da un profondo amore che trascende il semplice legame di sangue. Il pericoloso lavoro di Oscar (spacciatore), però, lo porta presto alla morte; la sua anima inizia così a vagare per la città, osservando dall’alto gli accadimenti successivi (ma anche precedenti) alla propria morte.
Enter the Void prende liberamente spunto dal Libro tibetano dei morti, che Oscar legge più volte prima della sua morte, secondo cui l’anima di chi non è ancora pronto per lasciare il mondo inizia a vagare, tra passato e futuro, alla ricerca di un nuovo corpo da abitare.

Il principale escamotage utilizzato da Noé per “gettare” lo spettatore nel proprio film è quello di utilizzare, in maniera diffusa, varie modalità di soggettive e semi-soggettive. La macchina da presa nei primi minuti del film è, letteralmente, gli occhi di Oscar, così facendo lo spettatore diventa il protagonista. Dopo la sua morte invece, la mdp è posta quasi sempre alle spalle del protagonista, come se noi, spettatori, fossimo degli osservatori passivi di tutto ciò che gli accade intorno. Noé così facendo, realizza una pellicola metalinguistica, che distorce e sforza continuamente l’immagine filmica fino al limite, costringendo lo spettatore ad un vero e proprio tour de force scopico. Un viaggio estremo che si chiude, nichilisticamente, con la parola Void, le cui lettere cubitali riempiono lo schermo.

I vari tipi di soggettive in Enter The Void


Noé, fin dai tempi di Enter The Void, ha in realtà sempre attraversato un discorso coerente: la rappresentazione del nulla. Un nulla che nell’era contemporanea si è trasformato in tutto. La sua ultima opera, Climax (2018), ne è il risultato più maturo. 
Il film racconta di una vicenda realmente accaduta nel 1996 in Francia. Venti giovani ballerini si riuniscono per una prova a porte chiuse in un collegio abbandonato. Presto si rendono conto di aver assunto LSD, ma non sanno chi li ha drogati. La situazione degenera rapidamente, quella che era una semplice festa a base di sangria e danza si trasforma in una discesa oscura fatta di violenza.
Elemento sempre stato presente nella filmografia di Noé sono, difatti, le droghe. Implicitamente il nostro Gaspar, nel corso dei suoi film, ci fa capire di essere stato un assiduo consumatore di allucinogeni: in Climax utilizza le droghe per raccontare la perdita progressiva di controllo. Quando l’effetto dell’LSD comincia a manifestarsi nei protagonisti, le loro azioni abbandonano ogni sovrastruttura sociale che li lega a un affetto o a un’amicizia con l’altro. Questo controllo però il regista ce lo mostra attraverso la danza, elemento (se non addirittura personaggio) fondamentale all’interno del film. Così facendo il corpo diventa materia filmica e musicale, le forme del corpo smettono di essere corpi ma diventano linee, movimento puro, che segue ritmicamente la colonna sonora, quest’ultima porta i nomi di numerosi DJ francesi e non: Daft Punk, Dopplereffekt, Marc Cerrone, Alphex Twin, Giorgio Moroder e tanti altri.

Gaspar Noé (destra) con il direttore della fotografia Benoît Debie (sinistra) durante le riprese di Climax

Proprio nel momento in cui ognuno si accorge della propria sconfinata solitudine, ecco che il nucleo del film si rivela in tutta la sua efficace ferocia, sia fisica che psicologica. All’interno dell’opera è impossibile non leggerci la filosofia e le atmosfere del Marchese De Sade, i suoi pensieri sulla vera natura dell’uomo che, scoprendosi irrimediabilmente solo, si ribella al perbenismo e alla convenzione sociale per abbandonarsi al corpo e allo scoperchiamento di tutti i tabù imposti. Ma nella filmografia del regista il
lasciarsi andare corrisponde anche a un’altra scoperta: quella del nulla. Per Noé il nulla è la lucida consapevolezza di una non-esistenza tra “forma” e “sostanza”, dove l’essere umano porta avanti le proprie azioni in maniera meccanica: difatti in Climax i protagonisti cadono nel nulla smettendo arbitrariamente di essere proprio degli “essere umani”.

L’ipnotica sequenza di danza


C’è inoltre da precisare che tutto il cast è composto da attori non professionisti (tranne che per il personaggio interpretato da Sofia Boutella). Questo ci riconduce ad un cinema che, al di là di quello che si potrebbe pensare, si prefigge di essere realista, aderente alla realtà che lo circonda, adeguandosi ad essa senza giudicarla ma, allo stesso tempo, descrivendola impietosamente attraverso la violenza ed il nulla che la abitano.