Scritto da Redazione

Pubblicato il 06/11/2020

Il teatro di Čechov, commentava un regista qualche tempo fa, è tutto nei personaggi. Allo stesso modo si potrebbe dire che il cinema di Hitchcock è tutto negli oggetti. Per dare esempio di come gli oggetti di scena siano centrali per la costruzione dei suoi film e nella sua filmografia si potrebbe partire da differenti strade. Una è quella che ricorda come la prima occupazione in ambito cinematografico di Alfred Hitchcock è stata quella di scenografo. Da qui è facile far discendere la sua attenzione per quanto decide di mettere letteralmente nella scena, di come ponga la sua attenzione in ogni dettaglio, di come le scelta di quanto sia in primo piano o in quinta, ripreso una sola volta o mille, sia curata. Per avere un’idea più precisa dell’importanza dell’oggetto in scena, e in particolare dell’arredamento, è utile fra i tanti testi dedicati a Hitchcock quello uscito nel 2019 per i tipi di Adelphi a firma di Guido Vitiello, Una visita al Bates Motel. Docente di cinema, Vitiello ha condotto un’indagine strabiliante, degna di un disturbo ossessivo compulsivo, analizzando fin nel minimo dettaglio l’oggettistica, i suppellettili; la quadreria; la collezione tassidermica e quant’altro presente tra le camere del Bates Motel e gli altri set di Psycho. Conclusione di questa appassionata e avvincente cerca, in cui è forse l’indagine ancor più delle conclusioni a risultare intrigante e di proficua utilità nel conoscere film e regista, è il mostrare come un film all’apparenza di sola carica emozionale sia invece investito di significati correlati alla mitologia greca, in particolare relativi ad Amore e Psiche, ad Eleusi, il sapere biblico, e il Bates Motel possa esser letto come “un museo immaginario dell’eros metafisico”; nonché la storia trovi spunto da quanto il trobar clus ha dato il là dal medioevo a oggi.

Senza alcuna pretesa di emulare una tale ardita indagine, in questo breve articolo si vuole evidenziare come anche in Dial M for Murder, in italiano reso come Il delitto perfetto, tutto il meccanismo è retto tramite gli oggetti in scena.

Il film è tratto da una omonima commedia teatrale, e di questa sua origine ne mantiene chiaramente il modello: praticamente un’unica location, l’appartamento della coppia in cui si consumerà il delitto, e solo qualche quadro all’esterno e poco più. Hitchcock stesso rivendica questa scelta minimale, seppur non amando particolarmente il film, quando racconta nell’intervista a Truffaut che: “Ho una teoria sui film tratti dai lavori teatrali e l’applicavo anche all’epoca del cinema muto. Molti prendono un lavoro teatrale e dicono: ‘Ne farò un film’; poi si dedicano a quello che chiamano ‘sviluppo’, che consiste nella distruzione dell’unità di luogo con l’abbandono della scenografia teatrale. […] Questo errore è frequente. Il film che si ottiene in questo modo dura generalmente il tempo della commedia più quello di alcune bobine che non hanno nessun interesse”.

Il risultato è un film in cui l’impianto teatrale è trave portante, al punto tale che anche il segno iconico di Hitchcock, la suspense, si declina in maniera discorsiva, teatrale. Se la suspense è data da quell’asimmetria informativa per cui lo spettatore conosce più di quanto sà la possibile vittima sullo schermo, ed è data solitamente dal montaggio di scene che mostrano in anteprima al pubblico il pericolo ancora celato per il protagonista della scena, qui tutto avviene per mezzo della parola. Infatti la trama del delitto perfetto è raccontata passo a passo prima che questo avvenga, cosicché noi spettatori, nel momento in cui il piano deve andare in scena, sappiamo di già quali mosse avverano il piano e dove può trovarsi l’inciampo che mina la perfezione del delitto. In piccolo, lo stesso meccanismo per cui il discorso anticipa l’immagine, si ha in una delle scene finali dove il capo ispettore dà una cronaca in anticipo sul montaggio dell’immagine di quanto avviene all’esterno del palazzo, al cancello d’ingresso. Ovvero ascoltiamo prima il racconto del capo ispettore che dice di quanto vede dalla finestra agli altri nella stanza con lui, e quindi, nel montaggio alternato, vediamo successivamente, in scena, quanto prima era stato detto.

In una tale ambientazione, così limitata e sempre esposta, appare in tutta la sua evidenza l’importanza della scelta e della sistemazione degli oggetti di scena. La necessità della costruzione di un set che sia utile allo svolgimento del film.

Oltre alla chiave della porta d’ingresso, un oggetto così piccolo da quasi non vedersi, e che sarà il fulcro dell’assassinio e dell’indagine, sono molti gli oggetti che si guadagnano il loro ruolo da attori senza voce nel film. Prime fra tutti le abat jour. In totale almeno quattro quelle in scena, sono posizionate al lato della porta d’ingresso, affianco al divano al centro del soggiorno, una nella zona studio sulla scrivania, l’altra che si vede è nella camera da letto. Le prime due sono gemelle, di un azzurro acqua e come le altre piuttosto raffinate. La terza è la più rifinita, decorata e variopinta.

Subito gioca un ruolo decisivo, per descrivere il sottotesto della tresca amorosa tra Grace Kelly e l’amante Robert Cummings, la lampada in mezzo alla sala. I due stanno parlando, sono soli, innamorati ma clandestini nella loro relazione. Per cui, al primo rumore che annuncia l’arrivo del marito sono costretti a separarsi dall’abbraccio e ritornare nella recita che li vede solo come amici. A raccontare in una sola immagine, e senza un profluvio di parole la cosa, è l’ombra disegnata sulla porta dai due, che prima è pressoché unica, e poi si sdoppia fuggendo ai due lati opposti. Per avere quest’ombra è però fondamentale che vi sia una fonte di luce, per cui la banale sistemazione di una lampada in mezzo alla stanza è invece sapientemente architettata non solo in funzione scenografica ma anche narrativa e in ancor più in funzione dell’immagine.

La lampada della camera da letto è candida e sottile come una camicia da notte. Come la stanza che la ospita rimane sempre defilata, epperò viene evocata come importante nell’economia del piano del delitto in quanto, nel buio totale della notte, risulterebbe la spia utile all’omicida per identificare l’arrivo della vittima.

La terza lampada, quella affianco alla porta, ha una rilevanza minore e funziona in accordo con la sua gemella in mezzo alla stanza. Nella scena in cui il marito propone il “dial” all’omicida, le opinioni fra i due divergono, il dialogo ha sorprese, rincalzi e il prevalere di una parte o dell’altra. In questo gioco dialettico i due attori in scena si spostano, si allontanano e s’avvicinano più volte, quasi seguissero le ellissi di pianeti in una galassia. A fare da soli a questo sistema le due lampade, punti immobili fra i moti dei personaggi, fungono da perno visivo, in cui si riflettono, in questi loro doppi in stasi, i due uomini nella stanza alle prese con le loro opposte e complicate, dialettiche, strategie e tattiche per sistemare le cose fra loro e con la vittima.

Inoltre, la lampada al centro della stanza, in un’inquadratura in cui si materializza in immagine il triangolo amoroso tra marito-moglie-amante, risulta stagliarsi nuovamente come doppio del marito nella costruzione del vertice alto del triangolo.

In ultimo, l’ultima abat jour sulla scrivania della zona studio. In posizione laterale, alla sinistra estrema del set della stanza, quando appare cattura l’attenzione per via della sua ricchezza nel motivo decorativo e della grazia che il fragile materiale di cui è fatto il portalampada promana. Punto luminoso opposto, è utile per tagliare meglio le ombre dei vari personaggi in scena così che appaia il tutto più vivo e marcato, secondo la scuola del cinema espressionista che proprio nelle ombre – per giunta dipinte – trovava la formula migliore per disegnare i suoi ambienti geometrici.

Questa lampada ha il suo momento clou nella scena di massima emozione per lo spettatore, quando la bellissima Grace Kelly è aggredita alle spalle e pare segnata nel suo destino di vittima come previsto dal piano. Tuttavia, come facilmente immaginabile e risaputo, ogni piano, anche quello all’apparenza perfetto, ha il suo inciampo. E così, nel momento in cui si ribalta quanto doveva avvenire, la lampada cade a terra come fosse metafora del fallimento del piano. La scrivania in cui la Kelly è scaraventata con violenza vede la lampada prima al suo posto, quindi la si sente cadere a terra.

Da lì a poco la reazione di lei che riesce a resistere all’aggressione e colpire sulla schiena il sicario che poi vedremo a terra. In questo momento, con il piano ormai caduto al pari della lampada, l’immagine trova un paio di bellissime composizioni. Nella prima la lampada a terra pare un doppio di Grace Kelly sdraiata sulla scrivania, il braccio a peso morto sul lato di chi è privo di forze, e le gambe penzolanti. La lampada, che caduta ora poggia sul paralume assume assume una posa simile a quella della donna bionda, quasi stanca anche lei dopo la colluttazione. E poi, poco dopo, quando l’omicida è ormai l’ucciso, sembra replicare la figura del corpo, spento e senza vita come la lampada, sul pavimento.

Si può inoltre notare come le quattro lampade sono utilizzate in maniera differente tra la prima e la seconda parte del film, prima del delitto e dopo di questo. Nella seconda parte le lampade sono generalmente spente, le luci sono quelle del giorno; in questa fase del film  rifulge il chiarore della legge, quello dell’indagine scientifica di stampo appunto illuminista. Nella prima parte, all’opposto, dove la congiura è in atto o in procinto di avvenire, è la luce delle lampade a venire utilizzata, dando tramite il chiaroscuro l’adeguato sapore carbonaro alla situazione.

Il gusto da antiquario di Hitchcock non si esaurisce nelle lampade, e così l’intero set è arricchito da innumerevoli chincaglierie e oggetti; tra cui quelli usati come le collant, il liquido infiammabile, fotografie, forbici, telefono, lettere; e quelli soltanto in mostra: ad esempio una pila di libri d’arte inquadrati per pochissimi attimi, giusto il tempo di leggere in costa i nomi di Bellini e Da Vinci. Oppure gli abiti, anch’essi raggruppabili agli oggetti e su cui è lo stesso Hitchcock a dirne come sono stati usati. “C’era una ricerca interessante sui colori nell’abbigliamento di Grace Kelly. L’ho fatta vestire di colori vivi e luminosi all’inizio del film, poi i suoi vestiti sono diventati sempre più scuri man mano che l’intreccio diventava più ‘oscuro’”. Un processo che potrebbe, per analogia, dare credito a quanto scritto a proposito dell’uso dell’illuminazione tramite lampade all’inizio per poi abbandonarla in seguito.

In ultimo si può dire di come gli oggetti siano messi in evidenza tramite la tecnica del 3D con cui è stato girato e distribuito il film, almeno negli Usa. Seppur Hitchcock stesso dica che sono poche le scene in cui viene utilizzato questo effetto, è comunque da sottolineare – e facilmente intuibile – come una tecnica volta a valorizzare la profondità, la terza dimensione, trova la sua più immediata riuscita proprio nel mettere bene in mostra gli oggetti in scena. – Alfred Hitchcock – “l’impressione del rilievo si percepiva soprattutto nelle riprese dal basso verso l’alto […]. C’erano pochi effetti direttamente basati sul rilievo. – François Truffaut – Con un lampadario, con un vaso di fiori e soprattutto con delle forbici. – Alfred Hitchcock – Sì, quando Grace Kelly cerca un’arma per difendersi, e poi un effetto con un buco della serratura, tutto qui”.

Lampadario, vaso, forbici, serratura, come anticipato l’effetto tridimensionale è in funzione di una migliore messa in quadro degli oggetti.

Un articolo così approssimativo e giusto introduttivo al tema non ha pretese di esaustività, per cui l’analisi e la lettura di quanto è contenuto nel limitato – ma per nulla spoglio – set di Dial M for murder è un esercizio che è ancora da svolgere, e magari può farlo lo stesso spettatore del film la prossima volta che si metterà in visione di questo kammerspiel ambientato in una piccola e borghese wunderkammer.