Funeral Parade of Roses (Bara no Sōretsu), il lungometraggio di Matsumoto Toshio del 1969, si inserisce nel filone dell’avanguardia giapponese, quel percorso tracciato da Wakamatsu Kōji, Ōshima Nagisa e Suzuki Seijun, che con grande carisma si ponevano l’obiettivo di distruggere i tabù imposti non solo dalla società giapponese, ma anche dall’occupazione americana che segna il periodo post-bellico. Il film si dipana tra le anguste e caotiche strade di una Tokyo ferita dalla guerra, bussando alla porta di diversi gay bar e dei suoi assidui frequentatori. In uno di questi locali notturni, il Genet, un rimando, forse, allo scrittore gay francese Jean Genet, la cui Nostra Signora dei Fiori si accorda bene con il titolo scelto da Matsumoto, lavorano due donne trans rivali: Eddie, vestita di abiti moderni e sempre munita di un pesante strato di eyeliner nero, ciglia finte e frangetta, e Leda, la madame del locale, rivestita da preziosi kimono, con i capelli acconciati secondo la moda classica giapponese. 

Nel loro essere l’una l’esatto opposto dell’altra, diventano due dei punti focali di un triangolo amoroso che sfocia nella gelosia e nella violenza, contendendosi morbosamente l’affetto di Gonda, il proprietario del Genet. Il film si apre infatti con Eddie e Gonda avviluppati in uno stretto abbraccio, con la camera che segue l’intreccio dei loro corpi, ricordando l’iconica scena d’apertura di una delle pellicole fondamentali della Nouvelle Vague francese, Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais, e mostrandoci fin da subito chi tra le due lui preferisca. 

Con enorme maestria il regista mescola uno stile documentaristico, che si compone di filmati di manifestazioni studentesche e interviste ai componenti della comunità LGBT giapponese di fine anni Sessanta, a una serie di ingredienti meta-cinematografiche, mostrandoci gli attori e la troupe al lavoro, elementi fusi perfettamente in un cinema quasi anarchico, che sfida le autorità.

Matsumoto, fin dai primi lavori, ha voluto portare all’estremo la propria estetica esasperata e rude, alimentando una costante critica sociale, giungendo quasi naturalmente alla scrittura e realizzazione di quest’opera, il suo film manifesto, in un periodo di forte tensione artistica, ricca delle più disparate sperimentazioni. Ispirato alla tragedia Edipo Re, riferimento reso esplicito dalle locandine dell’omonimo film di Pier Paolo Pasolini che vediamo sparse per la città, non solo si inserisce all’interno del percorso tracciato dalla Nouvelle Vague, ma influenza un altro dei film cardine di quegli anni, Arancia Meccanica del maestro Stanley Kubrick, con la sua cruda rappresentazione del sesso, della nudità e della violenza. 

Di tutte le trasgressioni mostrate senza filtri da Matsumoto, quella che spicca è la rappresentazione, rivoluzionaria per l’epoca, della società gay giapponese e dell’orgoglio dei suoi componenti. Siamo quindi ormai già lontani dai problemi che torturarono Ōshima, che, nel 1976, quando lavorava ad Ecco l’impero dei sensi, era ben consapevole del rischio a cui si avvicinava nel dirigere e distribuire in Giappone un tale film erotico e che, per evitare il problema della censura, decise di spedirne le bobine in Francia, per poter essere montato e post-prodotto senza incorrere in alcun tipo di ripercussione in patria. Quando, a distanza di qualche anno, decise di pubblicare la sceneggiatura, contenente alcune immagini che vennero definite oscene dalla famigerata opinione pubblica, iniziarono di fatto i problemi giudiziari. Ōshima riuscì però a vincere il processo, sottolineando in maniera tagliente che il suo film non poteva scatenare alcun tipo di fantasia perversa, perché i rapporti erano resi in maniera perfettamente esplicita, senza omettere nulla. Matsumoto, in quanto diretto discendente della scena erotica giapponese gestita magistralmente da Ōshima e Wakamatsu, decide di non farsi limitare dalla paura della reazione del pubblico e di rendere le scene sessualmente esplicite, circondandole di specchi, primi piani di sguardi rasenti la follia, realizzando una monocromatica fusione tra realtà, documentario e stacchi di immagini statiche che ricordano inevitabilmente lo stile di Bergman in Persona. La camera, portata a mano, segue i movimenti dei corpi, li accompagna, fino a quando non incontra il loro riflesso dello specchio, in cui entra più e più volte, sorpassando quel confine liminale che separa ciò che è vero da ciò che non lo è.


Funeral Parade of Roses aggiorna l’Edipo Re, rileggendo la storia attraverso la lente del melodramma e del documentario d’avanguardia e mettendo in scena un costante gioco di maschere grottesche, quelle che, come ricorda la voce nel museo, “alcuni indosseranno per tutta la vita”. Quel doppio, tanto caro ai registi contemporanei, si dirama nel senso di colpa che attanaglia la protagonista, accompagnandola fino al finale in soggettiva, una dolorosa rappresentazione dell’apice della sua disperazione. 

Scritto da Ludovica Lancini