Se dal proprio corpo non si può fuggire, anche a costo di spogliarsi per diventare altro, come ci si può sentire ad avere un doppione di sé, uguale nell’aspetto fisico, nella sessualità, nella passione di una vita, che conduce una vita parallela, inaccessibile? Se quelle sensazioni di stordimento in cui ci si sente soli al mondo passassero in virtù di una consapevolezza diversa, opposta, quanto a fondo cambierebbero le nostre vite? 

Non facevo che chiedermelo sotto la doccia, subito dopo la proiezione in Cineteca a Bologna – rigorosamente nella sala Scorsese del cinema Lumière- della Doppia vita di Veronica. Nel film di Krzysztof Kieslowski del 1991, sin dalle prime scene in una Polonia piovosa, malinconica e color seppia, l’unica consapevolezza è che le protagoniste sono due ragazze identiche. La prima – Weronika – la incontriamo subito dopo una lezione di canto, con la divisa bagnata mentre si stringe contro un muro su di un altro corpo, stavolta maschile. Solo pochi minuti, ma già la vediamo spogliarsi per un rapporto sessuale. La ascoltiamo rendere partecipe il padre della sua sensazione di avere una vita parallela in un altro posto, lontano dalle sue radici, forse in risposta di un legame mistico che non sappiamo spiegarci. Non ancora perlomeno. La seguiamo cambiare città con la macchina da presa che coglie e descrive questo profondo bazar urbano, in costante movimento. Ed ecco allora che la narrazione ci presenta la seconda ragazza – la francese Veronique – che in un suo viaggio in Polonia aveva visto salire su un autobus una ragazza del tutto simile a lei. Dell’incontro, caotico e fugace, non resta nulla; il suo doppione non si è neanche accorto della sua esistenza, eppure ne resta una traccia visiva, incontestabile. 

La narrazione, mista alla rigorosa regia di Kieslowski, non coglie soltanto le due vite speculari delle ragazze, ma le obbliga a mostrarsi, sottrarsi, confondersi con i nostri stessi corpi. Come dimostra la scena che vede per protagonista Weronika – a circa metà film, ma è il tanto che basta per non togliere nulla ad una prima visione – che spaccherà in due gli eventi. L’ambientazione ci suggerisce che stiamo assistendo ad uno spettacolo puro, fatto e finito, ma la soggettiva che ne segue ci obbliga a fare esperienza di qualcosa di sbagliato, di innaturale. Kieslowski spinge i confini della nostra esperienza umana ed effimera, in nome di un virtuosismo cinematografico forse, ma anche per costringerci a fare ammenda. Sembra dirci che non è nella ricerca dell’altro, di un corpo opposto al nostro, il modo giusto per placare malinconie e sentimentalismi; l’unico corpo su cui fare riferimento è il proprio, ma a patto che ci sia abbastanza coraggio per conoscerci a fondo, per liberarci da vestiti invisibili e restare così nudi. 

Anche se la nudità vuol dire sentirsi improvvisamente soli al mondo, di colpo, come ci raccontano le parole di Veronique che di riflesso, mentre si consuma il secondo atto, pare buttarsi su corpi di legno costruiti da un marionettista. Corpi che non possono muoversi se non guidati da mani umane, ma che pure sembrano conoscere la sua storia così bene. Allora ci si può anche chiedere, come potrebbero non conoscere la nostra? Noi che per circa 98 minuti abbiamo visto destini intrecciarsi, costruirsi, fondersi; che abbiamo mescolato insieme vita e morte, rivoluzione e passivismo, ricerca. 

Quella sera, nel buio della sala, avevo la netta sensazione che il mio vicino di posto mi lanciasse delle occhiate, che volesse dirmi qualcosa. E non solo perché il film ti invoglia ad avere una conversazione su ciò che hai appena visto, ma perché ti obbliga a metterti a nudo, per trovarti. Proprio come Weronika. Proprio come Veronique.

Scritto da Stefania Chiappetta