È strano pensare che in tempi non sospetti, quando la più grande preoccupazione sul territorio europeo era l’evolversi della pandemia, ci fosse chi, in Russia, rivolgesse la propria attenzione ai nudi della statuaria classica. Verso fine aprile, un anno fa, faceva notizia il fatto che l’amministrazione comunale di San Pietroburgo avesse inoltrato all’Hermitage una lettera ricevuta da una cittadina indignata dalla presenza nel museo di innumerevoli rappresentazioni di nudi, “soprattutto maschili”, offerti con impudica liberalità alla vista di bambini e adolescenti. Per evitare che simili figure, “talora perfino congiunte in amplessi”, continuassero a esercitare anche in futuro la loro azione corruttrice sulle nuove generazioni, la volenterosa e autodesignata consulente proponeva al direttore Michail Piotrovskij di riunire tutte le statue discinte in una sala a sé e di apporvi sopra, a mo’ di ammonimento, quel +18 che adorna in Russia gran parte della produzione letteraria. Inconsulto attacco di pruderie? Furore iconoclasta? Forse manifestazione di quella stessa diffidenza nei confronti di tradizioni culturali percepite come estranee (tale è, in fondo, la statuaria classica, arrivata in Russia solo all’inizio del XVIII secolo sotto forma di Venere) con cui già Sergej Ejzenštejn si era permesso di giocare in Ottobre: nelle sale e nei corridoi del Palazzo d’Inverno il regista utilizza ironicamente le statue dell’Hermitage come vere e proprie comparse o mock-up di lusso per esaltare tutta la necessità della violenza rivoluzionaria. Qui le donne del battaglione della morte, schierate a difesa del Governo provvisorio, appendono gli emblemi della loro vita militaresca (cappotti, berretti, gamelle e fucili) ai marmi inermi e una soldatessa contempla assorta la Primavera di Rodin prima di arrendersi.

Passato questa volta il rischio, grazie all’intervento del direttore del museo, di veder coperte o negate allo sguardo Le Tre Grazie di Canova e Il Poeta e la Musa di Rodin, ciò che resta è l’interessante ed eterno rinnovarsi del dibattito riguardo a ciò che è lecito o meno guardare. Un imbarazzo di fronte allo sguardo che anche Marialba Russo, sbucando dal tettuccio aperto della sua due cavalli, fingendo di stare fotografando altro, deve aver provato mentre per le strade di Napoli fissava su pellicola – fugacemente, di sottecchi, a distanza di sicurezza – i poster di scandalosi film erotici degli anni Settanta. Russo racconta che queste immagini erano comparse con prepotenza e quasi all’improvviso e che la serie si sarebbe poi interrotta perché questi film così com’erano arrivati sarebbero spariti, fagocitati nella pornificazione più massiccia della scena pubblica e nel ritiro nella fruizione privata consentita dal mercato video. Quella che documenta Russo è dunque una fase fugace in cui, con paradossale ironia, il personale è politico perché il privato è pubblico: in strade trafficate, anche del centro, compaiono questi manifesti scandalosi, appariscenti, spudorati, che espongono corpi di donne seminudi e invitanti. Senza un piano preciso Russo ne è colpita, sente l’esigenza di catturarli e collezionarli e inizia così la sua ricerca che dapprima fortuita diventa poi sistematica. Arrogarsi il diritto di guardare significava però rischiare, nascondere questi scatti equivaleva a proteggersi. Doveva apparir strano che una donna di trent’anni volesse immortalare quei poster scabrosi: lo faceva per farsi notare, lo faceva per emulazione, per provocare? Il suo gesto poteva farla diventare oggetto dello sguardo, con i suoi scatti attirava attenzioni indesiderate. Proprio per questo cercare un senso nella serie di Russo vuol dire guardare le immagini che scatta e guardare lei scattarle. Vuol dire guardare da una prospettiva precisa questa sequela di disegni che ritraggono donne in pose improbabili, esagerate, spesso decontestualizzate e fluttuanti in un mondo di fantasia in cui tutto è roboante, super-porno, super-sexy, super-qualcosa. Promesse così alte da contenere già in nuce la delusione che si proverebbe guardando i film che pubblicizzano: mediocri, standard, rimasticati. Ambiguità dell’immagine, pure di quella pubblicitaria.

Mi torna in mente una frase del regista Edgar Reitz, appuntata chissà dove: “Con la parola posso comunicare, ad esempio, che due si amano. Lo posso dire. Ma non esiste un’inquadratura con cui potrei mostrarlo inequivocabilmente. Sia che li mostrassi vicini, che per mano, che mentre si baciano, che a letto, non starei spiegando che si amano. L’interiorità dei personaggi rimane sempre fuoricampo, invisibile”. Questo limite dell’immagine, continuava, era però anche la sua ricchezza: nel trasporre in immagine una sceneggiatura, non stava soltanto aggiungendo informazioni visive che la parola può solo suggerire con la descrizione (il volto di un personaggio, l’aspetto di un’ambientazione), la stava arricchendo di equivocabilità, quell’elemento che troppo spesso si tenta di censurare.

Scritto da Alice De Santis