“È una di quelle cose che va bene quando stai bene e va bene quando stai male” così mi aveva detto Marghe “Piangi, ma di gioia”.

Ci sono voluti mesi perché mi decidessi a seguire il suo consiglio.

L’occasione è arrivata qualche giorno fa quando, spalmata sul letto e con i vestiti tutti impiastricciati di sudore, ho trascinato la mia carcassa umida verso il PC così da abbandonarmi a Rai Play. 

“È una battaglia persa” Immusonita, rivolgevo quel pensiero al caldo di giugno, così anomalo da rendere faticoso perfino vedere un film. La sensazione era assurda, più precisamente quella di gettarsi penosamente allo sbaraglio in qualcosa che non richiede nemmeno sforzo fisico.

La pazza gioia di Virzì, che opera meravigliosa, a ripensarci sorrido. 

Soprattutto perché a buttarsi allo sbaraglio, alla fine, lo insegna questo film.

Da un lato abbiamo Beatrice, ricca affetta da sindrome bipolare, aveva come marito un avvocato vicino alla classe dirigente berlusconiana per poi finire in una relazione tossica con un criminale. 

Dall’altro Donatella, ragazza affetta da depressione, che vive nel tormento di un figlio di cui ha perso la potestà genitoriale e all’ombra di genitori pessimi. 

Le due si incontrano in una villa di campagna, una comunità terapeutica dove vivono alcune altre pazienti e assistenti sociali, da cui fuggono insieme passando alcuni giorni di libertà.

Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi in una scena del film

Non voglio dire molto della trama, spero si schiuda dolce al vostro sguardo come ha fatto con il mio. Il preludio di quest’amicizia, ancora di più il suo evolversi, infatti, è molto tenero. Il modo in cui le protagoniste, opposte, riescono a farsi luce a vicenda è imprevedibile e stupendo.

Nella fuga Beatrice e Donatella travolgono spazi gremiti di gente, a braccia aperte, le gambe lunghe ed energiche, i capelli scompigliati e la voce potente, la prima con le sue diarree verbali ossessive e Donatella con la magrezza delle poche parole. 

Entrambe seguono le loro ossessioni che, come un grido, sono state condannate a rimanere senza eco, commosse e commoventi fino alle lacrime. 

“C’è qualcosa di sbagliato” in queste donne e Virzì riesce a mostrarcelo in un modo che risulta nuovo. 

Ci mostra che ad essere complicata e sbagliata, alla fine, è la vita. Sempre. E aggiunge anche che è impossibile non fare errori, e che va bene così.

In questa operazione di accoglienza e onestà, fatta senza mai scivolare nel pietismo verso i temi delicati che tocca, Virzì condivide con lo spettatore la sua grande curiosità nei confronti dell’umano, in ogni suo lato.

La pazza gioia è un frullato di vitamine, ormoni, attrici e pazienti vere.

Prendiamo la stessa Beatrice: vuole sedurre chiunque le passi a tiro e si sforza il più possibile di essere elegante. In realtà non lo è per niente. È tutta strapazzata, la sua ricerca di eleganza e seduzione è tradita da una bretella spezzata, dal vestito incastrato nella mutanda o dai capelli per aria: è commovente. 

Tutto questo, però, fa parte della sua femminilità ed è raccolto da Paolo senza paura.

Donatella, invece, è piena di cicatrici e tatuaggi. Virzì è partito da un ritrattino di Egon Schiele per delineare questo personaggio che, in una vita piena di umiliazioni, limitazioni affettive e ospedalizzazioni, risulta molto tenero. Diventa bello e quasi divertente osservare una personalità così segnata: porta alla luce un lato di umanità diverso.

Voltare pagina, ricominciare da zero, è un vecchio e vano ritornello di tutti gli inaciditi del pianeta, anche se il caso di Beatrice e Donatella è alquanto diverso: ad ogni loro nuova traversata c’è un senso di quotidianità della malattia mentale che prende una forma sempre più solida e umana, una difficoltà necessaria ma normale, di cui tutti abbiamo bisogno.

“Ma dove si trova la felicità?”
“Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili.”

Guardatelo, guardatele, guardatevi. 

Scritto da Silvia Lo Castro