Scritto da Redazione

Pubblicato il 26/06/2020

Il colibrì verde (più pulp il titolo originale, The Bleeding Hummingbird), del regista Khaled Yohan, film a colori del 1951, è debitore in qualche misura di Black Narcissus. All’inizio del film troviamo una donna – interpretata dalla corvina e sensuale Cecil May, nome d’arte che Susanna Rubinstein scelse dopo esser scappata in America in seguito all’Anschluss, essendo di famiglia ebraica – in una giungla orientale; sprizzante nei suoi verdi accesi di una natura indomita e minacciosa che lascia graffi sul corpo della nostra protagonista e sulla pellicola piena di quelle smagliature cromatiche tipiche del periodo, quando lo standard per la pellicola a colori ancora non v’era e si tentavano differenti formule per inseguire un naturalismo che forse ha poi soffocato certo cinema. 

La donna è in fuga, non sappiamo da chi o che cosa; trova in mezzo alla vegetazione – fitta, ça va sans dire – un strana architettura per gli occhi occidentali, perimetro rettangolare delimitato da basse mura di canne di bambù, cupole appuntite dipinte di rosso e oro sgargiante. Il posto è un monastero, la donna chiede rifugio e ospitalità alla comunità di monaci. E se sulle prime questi paiono la soluzione, perlomeno temporanea, alle angosce della donna, il proseguo del film racconterà altro. Misteri e terribili pratiche scandiscono i tempi e la vita dei monaci, andando così a costruire un rigoroso horror che, seppur gli anni tolgano le palpitazioni in chi lo vede, rimane un esempio della maniera di fare buon cinema dell’orrore di quel periodo. 

Il film, per diversi aspetti, soprattutto l’ambientazione è, come si diceva, debitore di Black Narcissus, film del 1947 della coppia Michael Powell e Emeric Pressburger, dove in cima a un altissima e isolata rupe un convento domina la vallata e le vicende del film che tanti ne ha poi raccolti nei decenni di fan. Il colibrì verde, senza che si gridi all’ingiustizia, è rimasto molto più nell’ombra. Eppure è un film capace, pur nel suo fine ultimo di essere un prodotto d’intrattenimento, di svelare alcune delle contraddizioni della sua epoca e degli anni che seguiranno. È infatti riconosciuto dai critici come la vicenda della donna che cerca riparo all’interno di un cinto e rassicurante monastero, scoprendone poi i “panni sporchi” (chi ha visto il film capirà a cosa si allude, ma non diciamo di più per non togliere pathos a chi deve ancora vederlo), è una ficcante metafora della condizione dei due macro blocchi mondiali che si andavano a definire in quegli anni post bellici. Il monastero, con la sua regola e il suo vivere isolato, è simbolo dell’ideologia, di ogni sistema ideologico che vive della propria autosufficienza escludendo qualsiasi forma altra, altera da sé; mentre al suo interno, gli uomini che sotto di essa vivono, si vedono completamente dipendenti in tutta la loro vita dal totalitarismo insito nel paradigma stesso della forma ideologica. Così, una società, una nazione, uno stato, che nel film possiamo vedere nel personaggio della donna, cerca rifugio in un luogo che all’apparenza sembra sicuro e ospitale, ma poi si rivelerà ben lontano dalle promesse che presupponeva dall’esterno. Così è la vita sotto un’ideologia, e diciamo che il finale non lascia tanta speranza allo spettatore rifugiato sotto il proprio monastero ideologico. Ed è interessante come non venga mai svelato da chi o cosa scappasse quella donna. Quanto conta è invece capire il rischio di vivere sotto un sistema preconfezionato e opprimente, dove non pare esserci via d’uscita e non è accettata alcuna difformità. Appare, il film, una sorta di riscatto da parte del cinema che, dopo anni a servizio forzato della propaganda di qualsiasi totalitarismo, prova a farsi monito contro le forme totalizzanti tout court.

 Il colibrì verde, diretto da Khaled Yohan, regista che poi si perderà in un bric-à-brac di titoli televisivi che difficilmente troveranno posto nella memoria dello spettatore, e sceneggiato da John L. Patrick (in Italia maggiormente conosciuto dagli amanti della fantascienza, diversi suoi romanzi, come Al largo del Sistema solare, Cinque ore prima dell’inizio, Il recinto elettrodinamico, sono usciti nella celebre collana Urania), si può inscrivere tra quei film che trattando altro, rimanendo legati al cinema di intrattenimento, si rivelarono capaci di svelare aporie, contraddizioni e isterie del proprio tempo, come nel caso del famoso Zombie di George A. Romero, e una sterminata varietà di titoli di fantascienza, così innumerevoli che a provare a stilare un elenco si commetterebbero fin troppe e gravi omissioni.