Pubblicato il 25/06/2021

Scritto da Alice De Santis

La prima immagine di Maya Deren che il computer mi restituisce è quella di una donna alla finestra, lo sguardo fisso all’esterno, le mani poggiate al vetro, il volto incorniciato dal riflesso di ciò che io non vedo ma lei sì, laggiù, fuori. In questo fermo immagine mi sembra stabilirsi una connessione momentanea tra quello sguardo e la possibilità di fantasticherie e allucinazioni, esperimenti di sovrapposizioni e giustapposizioni di spazi disparati, di fughe interrotte e sogni confusi all’incubo, elementi che spesso vanno a intrecciarsi nel lavoro cinematografico della Deren. Ho la sensazione – veloce, evanescente – di trovarmi di fronte a una rappresentazione di quell’ istante esitante, intrappolato tra un movimento verso l’esterno e un corpo chiuso all’interno, capace di restituirmi l’idea narrativa del cinema di questa regista.

Statunitense di origine ucraina (Kiev 1917 – New York 1961), arrivata negli USA nel 1922, autrice di studi d’estetica filmica oltre che di ricerche sui riti vudù, Maya Deren si dedica al cinema sperimentale influenzando non solo le esperienze underground degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche la produzione industriale hollywoodiana. Tra i suoi cortometraggi, accanto all’interesse per la danza e il movimento sono notevoli il gusto per le atmosfere oniriche, la ricerca di immagini liriche e l’uso sofisticato dei movimenti della macchina da presa, Meshes of the afternoon (1943) è forse il più conosciuto.

È negli scritti però dove accentua il suo status di innovatrice della produzione cinematografica e della teoria del cinema. Nel 1946 Deren scrive An Anagram of Ideas on Art, Form and Film dove illustra il proprio approccio al cinema. La sua è una presa di posizione forte che intende il cinema come una matrice di elementi capaci di porsi al di fuori dei vincoli di gerarchia, ordine e valore. Un approccio utopico, paragonabile alla logica sviluppata dai formalisti russi, che sottolinea l’influenza dei singoli elementi cinematografici all’interno di un processo visivo e interpretativo presentato come anagramma. In un anagramma tutti gli elementi esistono in una relazione simultanea; di conseguenza, al suo interno, niente è primo e niente è ultimo; niente è futuro e niente è passato; niente è vecchio e niente è nuovo. Ogni elemento anagramma è così connesso al tutto che nessuno di essi può essere cambiato senza influenzare la sua serie e quindi influenzare il tutto. E per converso il tutto è così connesso ad ogni parte che, sia che si legga orizzontalmente, verticalmente, diagonalmente o anche al contrario, la logica del tutto, anche se stravolta, rimane intatta in ogni nuovo ordine. 

Un anno dopo questa pubblicazione, Deren si vede assegnata una Guggenheim Foundation Fellowship per condurre una ricerca sul rituale vudù nella cultura haitiana. Arrivata ad Haiti per girare un documentario, rinuncia presto alle pretese di realizzare un lavoro che sia semplicemente osservazione distaccata e oggettiva del fenomeno per comprenderlo invece in un’accezione più ampia e profonda: quella del rito mitologico e metafisico vissuto in prima persona. Fedele alla propria vocazione, Deren affronta da artista la religione vudù, immergendosi fra le sue pieghe e affrontandola negli aspetti più profondi e sconvolgenti che a un osservatore esterno apparirebbero invece contraddittori. Lontanissima, dunque, dal metodo etnologico e scientifico di Malinowski o di Margaret Mead, Maya Deren traccia un quadro che si distacca dalla vulgata occidentale (quella che vede nel vudù un complesso di riti magici orientato al dominio degli altri, alla creazione di schiavi zombie ottusi) e si tuffa in una ricerca di stampo partecipativo, raccogliendo materiale che fornisce uno spaccato soggettivo difficile da riscontrare in altri lavori. Da questa esperienza derivano l’inizio di un film in presa diretta – dove la camera segue il ritmo furioso dei riti e lo spettatore è proiettato in un contesto surreale osservato da vicino –  e un libro del 1953, I cavalieri divini del vudù. Dopo la morte dell’artista, il suo terzo marito Teiji Ito, assembla e monta il filmato haitiano rimasto incompleto costruendo una rigida struttura antropologica e aggiungendo la classica voce fuori campo che chiarisce, traduce e addomestica i dettagli delle cerimonie. Un lavoro che molti considerano in contrasto con la volontà e le idee della Deren, la quale aveva deciso di non rendere pubblico il girato in quanto «l’aspetto puramente visivo offrirebbe dei significati errati ad un pubblico non informato e non partecipante. […] Avevo cominciato come artista, come una persona che vuol plasmare gli elementi della realtà per farne un’opera d’arte a testimonianza della propria integrità creativa; ma ho finito per trascrivere nel modo più umile e preciso possibile la logica di una realtà che mi aveva costretta a riconoscere la sua integrità e a rinunciare alla mia attività artistica» (I cavalieri divini del vudù).

Per chi conosce il percorso della Deren e il suo modo di lavorare, questo passaggio in bilico tra antropologia, scrittura e arte sembra uno sviluppo naturale della sua maniera sperimentale di procedere. La stessa artista che filma Duchamp a New York durante la partita a scacchi concepisce sé stessa come una ricercatrice, un’artista che cerca di evocare la presenza ineffabile della realtà. Viene alla mente il coinvolgimento di cui Michael Taussig parla in Il mio museo della cocaina, quel non potere mai restare indifferente alle circostanze, l’essere implicato nella vita delle comunità povere e minacciate dei neri della Colombia. Se l’antropologia si richiama al “metodo”, all’importanza della sospensione tra oggettività e soggettività, della capacità dello sguardo da lontano, ma coinvolto, per gli artisti forse il capitombolo avviene al contrario. Il salto mortale è quello dalla soggettività estrema alla capacità di far parlare la realtà senza caricarla solo del proprio sguardo. Maya Deren sembra essersi fermata un passo prima da questa caduta, lasciando l’esperienza haitiana al semplice stato di ricordo, di vissuto. Altri hanno oltrepassato al suo posto quella linea, trasformando il girato in film, trascinando l’immagine di quella donna alla finestra, sospesa tra interno ed esterno, in uno spazio specifico, quello dell’assertività della visione, della spiegazione, della comprensione. Una condizione ben diversa rispetto agli anagrammi e ai mondi creati da Maya, dove il surreale è possibile, dove il non-capito è essenziale.