Prima di scrivere Arancia meccanica, Anthony Burgess credeva sarebbe morto presto, molto presto. Romanziere inglese, nato a Manchester nel 1917, studiò e prestò servizio militare come ufficiale educatore nell’Asia orientale. Intellettuale insaziabile, critico letterario, esperto conoscitore di musica e sperimentatore di linguaggi si dice insegnasse bene, litigasse con i superiori e bevesse continuamente. Arancia meccanica, capolavoro distopico, è stato pubblicato nel 1962 dopo una diagnosi presumibilmente nefasta ricevuta a seguito di un collasso, con un matrimonio che andava allo sbando e una brutta storia alle spalle. Per distrarsi probabile dunque che Burgess scrivesse, e pure parecchio: era assurdamente prolifico, si gettava sulle pagine senza riprendere fiato, arrivando a completare un numero incredibile di romanzi, libri di musica, libri su James Joyce, libri su Shakespeare, recensioni e saggi e interviste. Stanley Kubrick, l’esatto opposto, trasformò poi la sua opera più famosa in uno dei film più controversi di tutti i tempi, portando nel 1971 Arancia meccanica sul grande schermo. E anche se alla fine Burgess si pentì del successo del libro e del film, e rimproverò a regista di non aver tenuto conto del capitolo finale, troppo male questo film non deve avergli fatto visto che continuò a vivere – e a scrivere e a rilasciare interviste – fino al 1993.

L’inquadratura iniziale di Kubrick, in cui Alex ti fissa direttamente, è impegnativa, ipnotica, complice e autoritaria. Introdotto in questo mondo violento sei bloccato con uno psicopatico come unico e principale eroe. Intrappolato e affascinato, attratto e respinto, guardi, ascolti e godi e questo perché per un ragazzo del genere non puoi che provare una sorta di attrazione, fattene una ragione. La sua sociopatica joie de vivre e il suo stile non a caso diventano presto mito, grazie ai costumi (bombetta, tuta bianca, anfibi, bastone, maschere, nasi fallici e pinocchieschi), alle scenografie (il Korova Milk Bar e le sue bianche statue di donne nude), al montaggio pop-art e musicale, all’uso stravolto ‒ geniale contrappunto ‒ di brani di musica classica (Purcell, Rossini, Beethoven) e di musica leggera (Singin’ in the Rain), alle riprese che vedono susseguirsi lentissimi carrelli, rapidissimi zoom, ralenti, accelerazioni, obiettivi deformanti, cinepresa tenuta a mano, tutto sotto l’algido bagliore di una fonte di luce quasi sempre in campo.

Un film violento, che non si scompone di fronte a nulla e si diverte, quasi la violenza fosse un gioco, un nuovo linguaggio con cui impossessarsi del mondo. Ed è proprio questo linguaggio, nella sua estemporaneità sfrontata ma apparente, a stimolare Kubrick, spingendolo a immettere nel film tutti i possibili trucchi linguistici di cui è a conoscenza, alla ricerca di un equivalente cinematografico dello stile letterario di Burgess e del punto di vista soggettivo di Alex. Il romanzo è in prima persona e la macchina da presa da sola non può dire io, se non in saltuarie soggettive (che ci sono, ma spesso non bastano a rovesciare la percezione sostanzialmente oggettiva del cinema): se ci mostra un punto di vista soggettivo, lo fa attraverso la contaminazione della propria oggettiva vocazione all’esteriorità. Kubrick però approfitta di questa divaricazione (la differenza letteratura/cinema) e ci mostra sin dalla prima sequenza (l’autopresentazione di Alex) il massimo dell’interiorità (l’io della voce narrante) insieme al massimo dell’esteriorità (la distanziazione progressiva dal primissimo piano di Alex alla sua riduzione a elemento indistinguibile dello sfondo). Kubrick prende dal romanzo i mezzi per mettere in discussione e sperimentare con il linguaggio e consegnarci una riflessione sulla violenza capace di fermarsi un attimo prima di sciogliere la sua aporia, sfidando la censura e il suo stesso autore. 

Scritto da Alice De Santis