Scritto da Michelangelo Morello

Pubblicato il 08/07/2020

Il 2015 è stato un anno di importanza epocale per il cinema italiano. Chi scrive crede fermamente che alla Festa del cinema di Roma, nell’ottobre di quell’anno, sia stato presentato un film fondamentale per il sistema cinematografico del nostro Paese. 

In un mondo occidentale che vede riaffiorare con forza e violenza il terrorismo di Al Qaida, che proprio nel 2015 rivendica l’attentato presso la sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi, causando un incontrollato senso di timore e insicurezza in tutto il mondo e di fronte al possibile nascere di una guerra, l’arte giunge in aiuto, ancora e lo farà sempre, per dare conforto e rifugio. 

Se negli studi di Hollywood gli eroi Marvel stanno già combattendo le forze del male da diversi anni sotto la carismatica guida di Tony Stark, in Italia alla decima edizione della Festa del cinema di Roma, viene presentato al pubblico per la prima volta, o meglio la seconda ad essere precisi, un supereroe, anzi mi correggo ancora, un super uomo che parla esclusivamente romano, con le maniglie dell’amore in alcun modo celate e che prima di capire che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” rapina un bancomat e tenta un assalto a un portavalori. Si parla, naturalmente, di Lo chiamavano Jeeg Robot. Gli interpreti sono: Claudio Santamaria, la debuttante Ilenia Pastorelli, lo zingaro Luca Marinelli e la boss mafiosa Antonia Truppo. Il regista della pellicola è Gabriele Mainetti, un ragazzo che all’epoca ha quasi raggiunto gli “anta”, cresciuto fra yogurt alla vaniglia, manga e anime giapponesi. L’influenza è evidente: l’eroe scelto per il suo film d’esordio è infatti Hiroshi Shiba del noto manga e anime Jeeg robot d’acciaio, il cortometraggio con cui vince il prestigioso premio “La 25° ora” nel 2008 è un omaggio al personaggio di Lupin III, Tiger Boy riprende le gesta de L’Uomo Tigre. Il compagno di merende, o meglio di yogurt alla vaniglia di Mainetti, è lo sceneggiatore e amico Nicola Guaglianone con cui collabora dall’alba dei tempi: uno sta alla scrivania l’altro sul set. 

Gabriele Mainetti

È indubbio che questa pellicola rappresenti un importante punto di svolta per l’industria cinematografica italiana. Si tratta di un film di supereroi trasposto nella periferia romana, la borgata tanto cara a Pasolini e Caligari soggetto delle loro intramontabili pellicole. La Nextgen del cinema italiano, composta anche da Sydney Sibilia, Matteo Rovere, i Fratelli D’Innocenzo, Andrea De Sica, Alice Rohrwacher e pochi altri, è il prodotto della globalizzazione iniziata negli anni ’70 del secolo scorso. Sono cineasti che hanno convissuto con la televisione e il cinema che trasmettevano programmi, cartoni animati e film soprattutto americani e giapponesi che sono entrati nell’immaginario comune in modo dirompente. Oggi questa Nextgen risulta essere influenzata da quel tipo di prodotto ricco di effetti speciali, effetti visivi, personaggi in grado di schivare le pallottole, capaci di saltare da un palazzo all’altro, e quindi riutilizza ciò che ha visto sul grande e piccolo schermo durante l’infanzia e l’adolescenza e lo riadatta alla tradizione italiana. È proprio per questo che i loro film, innovativi e coraggiosi, che imitano ma non scadono nella banale copiatura delle grandi produzioni di Hollywood, hanno successo. Vengono inoltre capiti profondamente dal pubblico italiano, il quale si riconosce e riconosce i luoghi e le città in cui queste storie prendono vita; accetta e applaude il fatto che lo scontro finale fra supereroe e villain sia all’Olimpico durante il derby capitolino o che dei plurilaureati, senza lavoro, fuggano dalla polizia fra le antiche vie della Roma imperiale, a bordo di un camioncino molto simile a quello guidato da Dan Aykroyd, per spaccio di stupefacenti. Sì perché il precariato e la disoccupazione in Italia sono le cose più reali che ci siano dopo la presenza imperterrita della mafia, ed entrambi questi mali vengono continuamente denunciati con forza dal cinema italiano. Dal 2015, infatti, sono molte le pellicole di fiction o che riprendono fatti di cronaca del passato su questi argomenti che vengono distribuite nei cinema; si ricordano: Suburra, Il traditore, Hammamet, Ammore e malavita, La terra dell’abbastanza, Gli ultimi saranno ultimi, la trilogia di Smetto quando voglio

Nonostante il primo film della trilogia di Sydney Sibilia sia datato 2014, ritengo che sia stato Lo chiamavano Jeeg Robot la chiave di volta perché ci si accorgesse, finalmente, che una produzione italiana diversa dal solito potesse esistere. Per affermare ciò mi affido non solo al mio gusto personale, ma alla sfilza di premi vinti (non solo nazionali), le critiche al 99% positive, il notevole incasso registrato e il fatto che in moltissimi hanno cercato di acquistare i diritti del film per poter farne remake e chissà cos’altro, ricevendo sempre secchi “no” da parte di Mainetti.

Un altro fattore che dovrebbe far gioire non solo l’industria ma l’orgoglio italiano tutto è dato dal fatto che molte di queste pellicole siano anche apprezzate all’estero, vincano premi importanti presso i festival europei e i cineasti italiani vengano chiamati a Hollywood per dirigere e collaborare alla realizzazione di nuovi progetti. Mi riferisco a Gabriele Mainetti per cui è stato dimostrato interesse per la regia di Venom e altre produzioni americane, mi riferisco a Stefano Sollima che, dopo Suburra, ha girato Soldado; ma mi riferisco anche agli attori, in particolare a Luca Marinelli, Alessandro Borghi e ad Alba Rohrwacher. Dobbiamo essere fieri di queste nuove personalità del cinema nostrano che in pochi anni si sono presi la scena con le unghie e coi denti, lottando contro le difficoltà produttive e distributive, e la mancanza di appoggio e visione che spesso caratterizza il nostro paese, non solo dal punto di vista cinematografico. 

Damiano e Fabio D’Innocenzo

Dal 2015 al 2018, stando ai dati ANICA, il numero di film totali prodotti in Italia è sempre stato in crescendo. Si contano appena 185 produzioni nel 2015, nel 2018 si superano le 270, segno che vi sia un ritrovato entusiasmo e una ritrovata fiducia nelle idee e nelle proposte dei cineasti italiani.

Rapporto dati ANICA

Il cinema italiano ha molto da esprimere, molto da poter dare soprattutto attraverso la fantasia e il cuore di ragazzi e ragazze giovani, che possono proporre una tipologia di cinema che abbracci anche generi più tipicamente internazionali. Ed è incredibilmente triste definire ragazzi e ragazze “giovani”, persone la cui età si aggira, se non ha già superato, i quarant’anni. È tempo che i grandi produttori abbraccino la Nextgen e capiscano che i loro progetti sono una reale via per la rinascita di una industria che per troppi anni è rimasta immobile in una cinematografia d’autore alle volte fastidiosa. 

Matteo Rovere sul set di Il Primo Re

L’augurio è duplice, tuttavia, poiché un secondo fattore determinante perché giovani autori possano emergere più facilmente e possano mostrare il loro cinema siete voi: il pubblico. Riempite le sale, guardate i prodotti originali Netflix, rendetevi conto che i bei film sono anche e soprattutto quelli italiani. Incoraggiamo a suon di affluenza massiccia nei cinema le produzioni e le distribuzioni nostrane. Il cinema è un’arte che si produce in squadra che è composta da macchinisti, operatori, produttori, distributori, autori, sceneggiatori, registi, microfonisti, truccatori, musicisti, scenografi, montatori, comparse e voi, anzi noi, il pubblico che guarda e giudica. Il grande cinema italiano c’è ed è forte, bisogna apprezzarlo perché non è scomparso con i vari Mastroianni, De Sica, Fellini, Sordi, Gassman. Esso vive e si sono presentati a noi altri nuovi grandi protagonisti.

Viva il cinema, viva l’Italia.