Scritto da Ludovica Lancini

Pubblicato il 23/06/2020

Miwa Yanagi è una fotografa giapponese nata a Kobe nel 1967.

Dopo aver studiato presso la Kyoto City University of Art ha iniziato a lavorare come insegnante, ma si è resa subito conto che quella non sarebbe stata la sua strada.

Non voleva che le venisse imposto alcun tipo di ruolo da rispettare, desiderando invece di uscire dalla sua vita ordinaria, trasformandola in qualcosa di nuovo. Dopo aver allestito mostre in tutto il mondo, e dopo aver rappresentato il Giappone alla 53a Biennale d’Arte di Venezia del 2009, si è ristabilita a Tokyo, dove lavora tuttora. È riuscita a comprendere come rappresentare una realtà come quella giapponese, rigida e standardizzata, cercando di trasmetterne la sua claustrofobia tramite diverse serie di fotografie e video che ritraggono principalmente donne tra i 20 e i 30 anni.

È solo da poco che nella società giapponese le donne sono riuscite ad emergere e a trovare lavoro al pari degli uomini, ma la società rimane comunque patriarcale e le donne sono viste come coloro che maggiormente devono assecondare le aspettative altrui.

Con i suoi lavori Miwa Yanagi vuole distruggere la normale percezione delle donne e dimostrare come possano essere totalmente indipendenti. La Yanagi però sa anche, come tutti i giapponesi, che non è possibile essere indipendenti all’interno di una società del genere. In alcune opere, infatti, le donne sono in uniforme lavorativa e, nella visione d’insieme, appaiono tutte uguali, con gli stessi abiti, lo stesso modo di acconciare i capelli e le stesse espressioni vuote, disposte in spazi piccoli e asettici, illuminate da una luce che di naturale ha molto poco e che le fa apparire quasi come degli automi.

Elevator Girls

Si tratta di una serie di opere in cui diverse modelle avvolte in classiche uniformi, si trovano in un luogo strano, quasi alienante. I riflessi che si vedono sopra le loro teste danno l’impressione che si trovino in una sorta di ambiguo centro commerciale sottomarino. Anche le vetrine retrostanti, che troveremo anche in un’altra fotografia della stessa serie sono significative. L’essere sempre composti, il doversi mostrare in un determinato modo, il fingere gentilezza sono caratteristiche tipiche di questa società. Ricordano quasi i negozi dei quartieri a luci rosse di Amsterdam, ma con modelle diverse, immobili, quasi come fossero dei manichini inespressivi. 

Il messaggio che vuole trasmettere tramite queste opere è quindi l’ossessione della società per le apparenze e la sua conseguente incapacità di lasciare respirare gli individui, a causa delle costante imposizioni e restrizioni a cui sono sottoposti quotidianamente, soprattutto nell’ambiente lavorativo. 

The White Casket

Nuovamente le donne rappresentate sono identiche e nuovamente l’opera è collegata al legame che si instaura tra donne e società, un legame alienante che le porta ad essere omologate in una realtà che si impone su di loro. La parte più inquietante di quest’opera è la successione delle immagini, nelle quali le tre hostess sembrano sciogliersi all’interno di un ascensore generando una sostanza di un rosso identico a quello dei loro abiti. Questo composto, che si trova sparso sul pavimento nelle ultime tre immagini, non è sangue, ma sembra quasi plastica fusa, di una tonalità tutt’altro che naturale. Nell’ultima immagine si può cogliere inoltre un che di scientifico, come se fosse analizzata dalla lente di un microscopio. Si può scorgere la firma dell’artista, come fosse il codice di una produzione in serie.

La serie My Grandmothers

In questa serie avviene un vero e proprio ribaltamento rispetto al mondo claustrofobico presente nelle Elevator Girls. Per realizzare queste fotografie l’artista chiese ad alcune sue modelle, di età compresa fra i 20 e i 30 anni, come si sarebbero immaginate da anziane e dalle loro risposte nacque questo set. Ovviamente non usufruì soltanto di molto trucco, ma anche di ritocchi realizzati digitalmente. Questa serie vuole rappresentare delle donne diverse, proiettate oltre… delle donne finalmente libere. Anche la luce cambia e non trattandosi più di ambienti asettici e freddi, la naturalità viene finalmente a galla. Anche lo sguardo della donna, seppur sempre serio e composto, appare più curioso e attento verso ciò che la circonda. 

Fairy Tales 

Prendendo come punto di riferimento principale le storie dei fratelli Grimm e portando all’estremo l’elemento oscuro già presente all’interno di esse, la Yanagi realizza una serie di fotografie particolari, enfatizzandone l’inquietudine con l’uso del bianco e nero. Cercare il sottofondo oscuro della fiabe non è sicuramente un approccio originale, ma Miwa si inserisce alla perfezione in questo territorio per lei nuovo, sviscerandolo in profondità. Pur trattandosi di racconti di stampo prettamente occidentale riesce a fonderli alla perfezione con la cultura giapponese, come nel caso di Raperonzolo: i classici capelli biondi vengono sostituiti da una folta chioma nera, che pende direttamente dal soffitto, elemento ricorrente nelle storie di fantasmi, come quelle firmate da Yotsuya Kaidan con il tipico susseguirsi di omicidi, tradimenti e conseguenti vendette da parte degli spettri. 

Un elemento che accomuna le varie fotografie è la presenza di bambine invecchiate, con il volto estremamente rugoso e, di conseguenza, in forte contrasto con le loro fattezze somatiche, con l’obiettivo di ingannare e confondere lo spettatore. 

Ne sono esempio Biancaneve, in cui i richiami evidenti alla favola originale sono lo specchio e la mela, e Erendira. L’agghiacciante storia di Erendira è in realtà di Gabriel García Márquez e racconta di una giovane ragazza orfana che vive con la nonna, che la sfrutta costringendola a prostituirsi per ripagare il danno alla casa causato da un incendio, di cui le viene data la colpa. La nonna snaturata del titolo originale viene resa in maniera perfetta dalla fotografa, con quella che sembra essere una sproporzionata maschera da anziana, che entra in forte contrasto con il corpo esile della modella.

Con coraggio Miwa Yanagi ci racconta della realtà sociale in cui è nata e cresciuta, mettendone in evidenza il negativo con grande forza espressiva, ma anche tramite ingegnosi espedienti.