Pubblicato il 18/02/2021

Scritto da Redazione

L’artista Youssef Nabil, egiziano newyorkese, trova la sua principale occupazione nella fotografia; in particolare, il suo fotografare, molto attento agli stilemi del divismo d’antan e del cinema technicolor ha la sua peculiarità nel fatto che le fotografie, realizzate in bianconero, vedono una elaborata fase di correzione post-stampa attraverso la pittura manuale delle fotografie, il che dà all’immagine i toni volutamente artati e variopinti a metà tra gli incantati scenari delle storie orientali e quelle del cinema. Ed è così che che scaturisce naturalmente, nel percorso artistico di Nabil, la realizzazione di un paio di cortometraggi girati in pellicola nell’ultima decina d’anni.

I corti, esposti a Venezia a Palazzo Grassi assieme ad una ricca retrospettiva di molti dei suoi progetti fotografici, non sono che è il passaggio dal manifesto al film. Se la sua estetica è appunto fortemente improntata da quella che è la stagione d’oro, almeno in termini hollywoodiani, del cinema egiziano, appare lo sviluppo cinematografico come la realizzazione di quanto le sue star su manifesto promettevano e alludevano, sono la fantasia realizzata di film altrimenti solo ipotetici seppur verissimi nel loro inserirsi tra la memoria di Nabil e l’immaginario egiziano e in parte anche estendibile all’occidente che in altro modo ha comunque conosciuto gli aspetti di divizzazione e quanto il cinema, specialmente quello di una certa maniera passata, sia capace di farsi icona di una stagione della storia o di un’epoca della propria vita.

Da questi presupposti, comuni alla fotografia e al cinema di Nabil, prendono il là i due corti. Il primo, You Never Left, 8 minuti fatti nel 2010, è un’autobiografia in tre atti dal carattere allegorico. Un giovane ne è il protagonista, in un tempo di anacronismi: impossibile: quindi nostro; egli è costretto a partire, una partenza che sarà morte, come preannuncia il pianto e le suppliche da prefica della madra che lo insegue tra le dune sabbiose. Il secondo atto, ben scandito tra primo e terzo da vistose dissolvenze a nero, è la cura e pulizia di un corpo che appare al contempo come un riposante massaggio che come l’unzione rituale funebre: in ogni caso la differenza è secondaria: quanto importa è la vicinanza tra la sua dipartita e il suo viaggio. Al terzo capitolo, in un eden dal verde acceso e irreale nella splendore del technicolor, vede il giovane come morto e risorto, come ci illustra una vesperbild impeccabile e manierista con la madre e il figlio. Questo appena prima che il verde ceda all’azzurro di un mare guccionesco in cui la navicella – in questo caso il termine appare indicato – prenda il largo per un altro ultimo viaggio del giovane.

Come nel primo corto, che vedeva nel ruolo della madre l’attrice francese Fanny Ardant, passata sotto la direzione di Truffaut, Resnais Scola e altri ancora, anche nel secondo corto Nabil fa ricorso a volti affermati del cinema per dare ancor di più il tono cinematografico attraverso la ripresa un po’ stereotipizzante del divismo.

Il corto si intitola I saved my Belly Dancer, del 2015. La struttura, come nel primo, è piuttosto semplice. Ancora un ragazzo è protagonista, lo si vede fin dalla prima scena sdraiato mentre dorme sulla sabbia. Un uso preciso della grammatica cinematografica ci fa comprendere che sogna, e in particolare il suo sogno si compone di tre immagini. Nella prima, disposti su un’unica fila compaiono i personaggi di quelli che anche un occhio non affine alla storia egiziana può leggere come personaggi del passato dell’Egitto, fermi e in posa. Nel secondo sogno, una donna si avvicina al ragazzo, è una danzatrice del ventre interpretata sensualmente da Salma Hayek. La danza del ventre, nel suo essere espressione di libertà e gioia, si può ritrovare anche nelle fotografie dell’esposizione. In particolare in The Last Dance, una composizione di 48 fotografie disposte su un’unica parete a dare in un grande mosaico le sfaccettature dei movimenti della danzatrice, che in quest’opera, volta a dire l’attuale periodo di repressione dei costumi in Egitto, non mostra un solo lembo del proprio ventre. Anche qui, come nel corto, il suo essere sotto scacco, censurata o fantasmatica, è segno della repressione che coinvolge tanto l’artista, esiliato, che la società, sottomessa.

Intanto, il terzo capitolo del corto, mostra il giovane a cavallo mentre si avvia verso un orizzonte con un grande e rosso sole, probabilmente declinante, dando al tutto l’aria un po’ triste dei bei sogni irrealizzabili. Infatti, il giovane, è ancora lì sdraiato a terra nel suo sonno e non può partire con la sua danzatrice se non nel sogno.

A corredo delle fotografie e dei due corti c’è un terzo video. In questo caso è un film d’archivio, anzi un centone cinematografico, composto da scene di baci più o meno celebri presi dalla storia del cinema egiziano. Il modello, molto facilmente, è il finale di Nuovo Cinema Paradiso. La differenza è che quella scena colpiva per il suo lirismo e la sua forza evocativa sull’ormai attempato Salvatore; qui è invece totalmente epico il tono nel voler riproporre la forza di un cinema che poteva permettersi la libertà di mostrare un bacio, cosa che nell’Egitto attuale non ha più. Per cui, come i due corti e il resto delle fotografie esposte, non fa che richiamare il tema forse centrale in Nabil: il senso di perdita e lontananza per il proprio Egitto, che non è tanto una distanza geografica e una perdita sul piano biografico, ma il veder dissolversi fra le sabbie, per volontà degli attuali governanti, un certo Egitto che fu e che Nabil conobbe nella sua infanzia.

Le sue fotografie, pop erotiche vintage e con una sfumatura camp, sono al pari un atto estetico e l’affermazione di un nostalgico dissenso sotto forma di arte.