Uscire dalla sala di proiezione o chiudere il proprio computer dopo aver visto un film ed essere altamente inquietanti e avere paura di ogni angolo buio che incontreremo per la strada senza aver visto un horror è praticamente impossibile. Eppure, David Lynch ci riesce ogni volta.

I film di Lynch non sono horror, non sono thriller, non sono noir e allo stesso tempo sono horror, sono thriller, sono noir. Nulla, nulla potrà mai preparare a quello che verrà proiettato sullo schermo. Anche leggendo la trama su Wikipedia o cercando tutti gli spoiler possibili, una volta davanti allo schermo si verrà proiettati in un mondo che metterà in discussione tutto ciò che crediamo di sapere sul cinema

E Mulholland Drive è probabilmente il film in cui Lynch raggiunge uno dei suoi più alti livelli espressivi.

I primi diciotto minuti del film sono un viaggio attraverso quattro diversi generi cinematografici, artistici ed espressivi: si parte con delle persone che ballano su uno sfondo viola adimensionale, poi si assiste a un incidente d’auto con le sfumature del noir e del poliziesco, dal buio di quelle scene di tensione si passa a un diner dove la tensione viene portata all’estremo, attraverso apparentemente nulla se non l’espressività di Patrick Fishler (che interpreta il personaggio di Dan) e la musica. La nostra tensione viene spezzata da una serie di telefonate “The girl is still missing” (“la ragazza è ancora scomparsa”) e il trillo dell’ultimo telefono si trasforma in una musichetta angelica e sognate che ci porta davanti all’aeroporto di Los Angeles dove Betty (Naomi Watts) è appena atterrata, carica di sogni e aspettative. 

Proprio a questo punto, trascorsi i diciotto minuti densi come film interi, per la prima volta ci sembra di aver connesso qualche puntino. Betty deve essere the girl di cui parlavano al telefono (o forse no, è Rita, interpretata da Laura Harring, la ragazza dell’incidente dell’inizio?) e sarà anche l’eroina del film che aiuterà Rita a ritrovare se stessa, giusto?

No.

Sì.

Forse.

Perché se mentre siete seduti sulla poltroncina cercate di convincervi che la trama sia quella, una serie di scene, musiche, colori, oggetti creeranno una sensazione continua che ci sia qualcosa che non va, qualcosa che non sta funzionando come dovrebbe,  qualcosa che prima o poi accadrà. E la tensione intanto crescerà insieme all’assurdità degli avvenimenti, che stoneranno sempre di più facendo perdere quasi completamente senso alla trama.

Finchè a un certo punto nulla avrà più senso: i personaggi buoni diventeranno cattivi e disturbati, chi sembrava perso in se stesso parrà ritrovarsi, ci sarà un omicidio o forse più di uno. Tutto questo mentre sembra che ci sia una mafia stile Il Padrino che controlla ogni cosa e minaccia un regista che non vuole stare al gioco, una chiave blu che si perde e poi ritorna e un cowboy, così al di fuori della cornice da starci perfettamente.

Lynch gioca con noi, ci prende in giro, utilizza la musica, i colori, il tema del doppio, il surreale per portarci a credere nell’esistenza di un senso nella trama. Di trame ce ne sono una, due, tre: il film è al contrario, l’inizio è la fine? Oppure il film è un sogno che diventa un incubo? Quali personaggi esistono e quali sono solo un risultato delle loro stesse proiezioni, delle loro stesse speranze? 

I colori hanno un aspetto fondamentale: creano contrasto e ci fanno concentrare su degli elementi (fornendoci indizi oppure distraendoci dal vero focus?). Le scene cambiano illuminazione radicalmente, passiamo dai toni rosa e pastello del sogno hollywoodiano di Betty, a luci radenti e ombre. Due colori in particolare spiccano tra tutti: il rosso delle labbra di Rita, del sangue, del telefono che squilla, delle stanze della Mafia, e il blu della chiave e del club Silencio, forse a indicare la natura sovrannaturale degli elementi. Perché anche il magico in Mulholland Drive ha spazio, creando una sensazione di inadeguatezza: quello che vedo lo devo considerare parte della trama o è solo un’allucinazione dei personaggi?

Insieme ad essi non possiamo dimenticarci la sperimentalità delle immagini di Lynch; infatti, oltre ai classici movimenti di macchina e alle inquadrature a cui siamo tutti abituati, c’è un vasto uso della sovraimpressione, che contribuisce a spezzare ancora una volta la normalità, inserendoci in una situazione a metà tra il sogno e l’incubo, richiamando ricordi e inserendo elementi inquietanti e sovrannaturali.

Ma i colori, i toni e le immagini sarebbero molto meno efficaci se non ci fossero le musiche. Lynch usa la musica in modo disturbante, per creare tensione dove non dovrebbe esserci e per legare scene che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro. 

Il massimo dell’espressione dell’unione tra luci, colori e musiche viene raggiunto dal club Silencio (dal nome non poco ironico) in una delle sequenze più belle del film, dove il confine tra realtà e immaginario si mischiano, facendoci dubitare ancora una volta su chi sia Rita, chi sia Betty (sono forse solo il doppio l’una dell’altra?), che cosa stiamo guardando e ancora una volta perché abbiamo la sensazione che qualcosa stia per succedere da un momento all’altro.

E sarà proprio lì che ritorneremo alla fine, quando ogni nostra sicurezza sarà distrutta, il rumore sarà diventato assordante, l’inquietudine sarà alle stelle: una donna dai capelli blu sussurrerà “silenzio” osservando il palco vuoto.

Scritto da Paola Ricciuti