Maggio 2008. Una squadra di cuochi gerosolimitani prepara un piatto di hummus da 882 libbre (circa 400 kg). Il Guinness World Records lo riconosce come il più grande del mondo. 

Alla notizia, un gruppo di cuochi libanesi si agita, subito si decide a sottrarre il titolo a Israele. 2009: piazzano sulla tavolata un piatto ancora più grande, 4532 libbre di hummus (circa 2056 kg).

L’annuncio del nuovo record arriva al villaggio “arabo-israeliano” di Abu Ghosh (siamo in Israele), dove lo chef Jawadat Ibrahim sbatte i pugni sul tavolo, arruola l’esercito e guida i suoi chef alla preparazione di un piatto ancora più immenso: 8992 libbre di hummus (quasi 4079 kg).

Ma è nel maggio 2010 che il record della porzione più abbondante di hummus torna in territorio libanese, l’avevano promesso e l’hanno fatto: lo chef Ramzi Chouieri guida 300 aspiranti cuochi dell’Università Al-Kafaat per servirlo sul piatto di ceramica più grande del mondo, 23042 libbre di hummus (più o meno 10452 kg).

Oltre al fatto che sia uno spasso immaginare queste squadre maschili fogarsi a vicenda mentre frullano, impastano e mescolano quantità esagerate di hummus, è inevitabile spuntare dalla lista delle verità assodate la voce “siamo quello che mangiamo”.

La gara per il record mondiale della porzione più grande di hummus, insomma, è stata chiaramente lo specchio di una questione identitaria nazionale, nonché un’estensione del conflitto politico che vige tra i partecipanti. 

Make Hummus, Not War. Se l’imperativo è stato preso alla lettera dai protagonisti del record, in prestito lo prende l’australiano Trevor Graham, e ci fa un documentario di 77 minuti, uscito nel 2012.

Probabilmente più adatto al piccolo schermo, l’opera di Graham si basa sulla premessa generale, quindi, che la “guerra dell’hummus” tra Libano, Israele e Palestina per la proprietà del piatto sia la perfetta metafora per rappresentare il più ampio conflitto arabo-ebraico della regione. 

Per quanto sia discutibile dire che il lavoro di Graham serva alla pace in Medio Oriente, sicuramente stimola (e ha stimolato, con un valore che da 5 milioni di dollari negli USA è arrivato a superarne i 400 milioni) l’ondata di consumo di hummus. 

Graham, ossessionato da un piatto così comune, si mette alla ricerca delle sue origini: tra una ricetta e l’altra finisce per trovarsi coinvolto nella questione prima identitaria e poi geopolitica ben più grande. 

Il film non è troppo drammatico e mantiene un tono leggero anche quando si tratta di ascoltare i coltivatori di ceci raccontare il modo brutale con cui è stata sottratta loro la terra. 

A una risposta, comunque, non si arriva e non ci arriva neanche Graham. Il regista si chiede se le origini di un piatto determinino a tutti gli effetti l’identità nazionale, così come lo incuriosisce capire se l’hummus originariamente arabo possa diventare israeliano. 

Vero è che il piatto viene regolarmente consumato dagli israeliani, ma quando (e come) gli immigrati ebrei non provenienti dalla “regione dell’hummus” hanno iniziato a gustarlo?

Dal documentario capiamo che la cultura culinaria non è solo una questione di eredità o tradizione, ma piuttosto anche di performance e pratica. La critica gastronomica Doreen Fernandez, che ha scritto parecchio sulla cultura e la cucina filippina, ha teorizzato i processi tramite cui un cibo nasce come straniero, viene poi consapevolmente adottato e adattato, staccato dalla sua associazione con i modi di mangiare di un “altro” e ampiamente diffuso in tutta la nazione. Lo stesso processo si verifica per l’hummus in Israele: inizialmente assimilato a un’immaginaria cucina ebraica mediorientale – che l’ha ufficializzata come “autentico” cibo ebraico-israeliano -, poco dopo ha spopolato ovunque. 

Nonostante ciò, c’è poco che suggerisca che gli israeliani abbiano mai rivendicato la proprietà nazionale esclusiva dell’hummus: si può dire che esso sia israeliano e libanese, ma anche giordano, palestinese e siriano. Insomma, non può essere limitato da confini etnici, nazionali o politici, e del resto sta diventando sempre più globale. Allo stesso tempo, però, negare la sua attuale israelianità vuol dire porre la cultura come statica, mentre le abitudini alimentari, come qualsiasi aspetto della cultura, si evolvono.

In conclusione, comunque, posso affermare una cosa: per quanto mi riguarda il titolo di hummus più buono mai assaporato se lo contendono le amiche e la mia coinquilina, in un piccolo conflitto veneziano che, vi dirò, mi basta così.

Scritto da Silvia Lo Castro