Scritto da Viola Quagliaroli
Pubblicato il 03/03/2021
Basata sull’omonimo best seller di Sally Rooney, Normal People è una serie elegante e minimale che racconta la storia d’amore tra l’intelligente, timida e un po’ scontrosa Marianne Sheridan, interpretata dall’emergente Daisy Edgar-Jones, e il giovane e introverso Connell Waldron, un affascinante Paul Mescal alla sua prima apparizione televisiva. Per lei è la prima relazione, per lui la prima che abbia un significato. Tra i due non è il solito colpo di fulmine alla Nicholas Sparks, ma è uno di quegli amori timidi tra due persone che si conoscono da sempre ma non si sono mai incontrate, una relazione complessa che germoglia durante le ultime settimane di scuola superiore e matura negli anni trascorsi al Trinity College.
La sceneggiatura non è ingombrante, le puntate sono dodici e durano dai venti ai trenta minuti, non vi sono grandi monologhi o colpi di scena memorabili, ma la narrazione è un delicato incastro di conversazioni sussurrate in camere da letto, di primi piani su occhi lucidi ed espressioni corrucciate, di carezze e di sguardi che rendono visibile ciò che è incomunicabile. L’intima regia di Lenny Abrahamson (già noto come regista di Room nel 2015) e Hettie Macdonald incornicia poi questa narrazione in paesaggi sbavati dai colori pastello, facendo sì che l’Irlanda, l’Inghilterra, la Svezia o l’Italia non rimangano altro che un palcoscenico per i sentimenti dei personaggi. Personaggi che, se guardati bene, non hanno segni particolari, trucchi elaborati o vite atipiche, perché non sono altro che persone normali, archetipi del consueto.
Non si può, a parer mio, dare un giudizio oggettivo a questa miniserie: o la si ama o la si odia, ma con le cose vere e sincere funziona sempre così, non ci sono mezze misure. Se c’è qualcosa che però va riconosciuta a questa produzione è il coraggio di raccontare con onestà un tema inflazionato come l’amore. In una realtà come la nostra, dove ogni giorno leggiamo di indipendenza sentimentale, di amore come atto di piacere, sfogo, protesta e molto altro, dove ormai siamo convinti che per amare gli altri bisogna prima imparare a voler bene a se stessi, una storia come questa può sembrare a prima vista una come tante, un po’ retrograda e, per i più cinici, sdolcinata. Eppure è tutto tranne che questo.
Quando i due ragazzi fanno l’amore non c’è nessuna musica in sottofondo, solo il rumore dei loro baci scoordinati, delle risate di imbarazzo mentre faticano a togliersi i vestiti, il bisbiglio dei sospiri e delle frasi di conforto sussurrate come per paura che, alzando la voce, tutto svanisca. Non c’è voyeurismo, non ci sono i luoghi comuni ma ci sono scene dove gli uomini piangono e le donne hanno delle storie senza peso; dove la depressione non è un’entità nascosta, mascherata, ma presente ed insidiosa e dove è di vitale importanza svelare agli altri quei rapporti logoranti celati dietro le perfette porte imbiancare delle nostre ville. Forse è coraggiosa perché per dirle che gli piace e che gli manca, lui le dice che con nessuno riesce a parlare come parla con lei, nonostante si pensi che la loro sia una storia di sesso e subito dopo parte Only you” di Yazoo. O forse, semplicemente perché un po’ tutti abbiamo sempre sperato nell’effetto Marianne una volta arrivati all’università, ma poi alla fine quelli come me sono decisamente più Connell: con un armadio di maglioni dello stesso modello ma di colore diverso, la paura di fallire e l’immensa difficoltà ad esprimere quello che proviamo nonostante i milioni di libri che abbiamo letto.
Che dire?, è una serie forte, che fa male, fa piangere, commuovere, sognare, sorridere, fa brillare gli occhi e vibrare il cuore, è una di quelle serie che non consiglierei come pillola di vita a fine giornata ma come una terapia per imparare a guardarsi dentro mentre si osserva la nostra vita attraverso quella degli altri. Insomma, questa serie va guardata anche solo per scappare un po’ dalla nostra normalità e vivere per qualche ora quella di qualcun altro e, anche se ora la mia affermazione può sembrarvi pirandelliana, una volta intrapreso questo viaggio capirete quanto è veritiera.
Io ho scoperto Normal People in uno dei momenti delle mia vita in cui mi sentivo più sola, in un momento in cui le conversazioni più lunghe erano quelle con me stessa, uno di quei momenti in cui si sogna che la propria solitudine riesca finalmente a collidere con quella di un’altra persona. E come spesso fa, il cinema mi è venuto in aiuto, perché è quello che succede qui: Marianne non si ama, non sente che la sua vita sia davvero tale fino a quando non incontra Connell, non un principe in armatura scintillante ma un ragazzo che non riesce fino in fondo a seguire i propri sogni fino a quando non viene spronato da lei. Che bello è l’amore quando è vero, quando ci si prende cura l’uno dell’altro, quando si ammette a se stessi il bisogno di avere qualcuno affianco, quindi ci si guarda e ci si dice “we have done so much good to each other”.
Mi scuserete per tutte le volte che ho usato la parola amore in questo mio flusso di coscienza ma purtroppo è un concetto che non permette molti sinonimi, e poi perché no?, in un mondo dove c’è tanta tristezza, è bello ogni tanto riempire le pagine della sostanza della felicità. D’altronde, Bernerdo Bertolucci diceva che il cinema “è la nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai vissuto” e per me quest’affermazione non è mai stata così vera.