Il filo nascosto che percorre tutto l’ottavo lungometraggio di Paul Thomas Anderson, non sta solo nelle effettive cuciture interne che molto spesso lo stilista degli anni ‘50 Reynolds Woodcock (l’ultima brillante interpretazione cinematografica di Daniel-Day Lewis), fa per rendere i propri capi d’abbigliamento dei pezzi unici ed inimitabili, ma esso si può percorrere, come una linea immaginaria, attraverso i legami affettivi che si tessono e si intrecciano per tutta la durata della pellicola; in primis fra tutti il rapporto con la sua musa Alma (Vicky Krieps) e con la sorella Cyril. 

La pellicola apre ai molti interrogativi sulle ossessioni che possono corrompere un rapporto amoroso (poco) sano e ci svela a poco a poco in ogni sua immagine un uomo al servizio maniacale del suo mestiere, che lavora ad ogni suo abito con una sfiancante devozione. 

La vocazione incontrollabile dello stilista al mondo sartoriale gli impedisce la costruzione di un rapporto stabile e duraturo con qualsiasi donna, fin quando non subentra nella sua vita Alma, che  non è certo una donna qualsiasi. 

Squarciando il velo di Maya che caratterizza la vita da bomboniera di Reynolds, Alma irrompe nella sua routine caratterizzata da piccoli rituali che fanno da fondamenta alla quotidianità del protagonista e di sua sorella Cyril (interpretata da Lesley Manville). In questo film non sono solo i tessuti e il senso del tatto, che inizialmente a una prima visione possono sembrare gli unici elementi fautori di sinestesie; ad uno sguardo più attento non sfugge il ruolo fondamentale che giocano gli odori, i profumi e soprattutto il cibo, durante tutto il racconto. In una delle scene chiave  si vede Alma cucinare per la prima volta per Reynolds, quest’ultimo anziché rimanere entusiasta di questa sua piccola sorpresa, si adira con l’amata in quanto colpevole di aver interrotto la sua sacra e ciclica routine quotidiana. La cucina inizialmente come manifestazione d’amore, diventa poi il risultato di un rapporto in disfacimento, che porta la protagonista ad avvelenare Reynolds con un omelette, solo ed esclusivamente per avere l’opportunità di prendersi cura di lui. Avvelenare l’amato per permettere al proprio amore di diffondersi: ed è proprio nel momento di convalescenza che i due protagonisti ritrovano complicità ed intimità, fino a portare Reynolds a chiedere ad Alma di sposarlo. 

Passano i mesi, gli anni, e le difficoltà relazionali fra i due tornano a farsi sentire. Alma è forte ed indipendente, l’impossibilità di Reynolds di avere il controllo totale sulla sua musa, lo rende irritabile, e poco incline a dedicarsi totalmente alla sua maison, poiché solo un chiodo fisso affolla i pensieri della sua mente: Alma, Alma e ancora Alma. Ed è proprio verso la fine del film che ci si rende conto di quanto il gesto dell’avvelenamento sia il mezzo che permette a questo rapporto così intricato, di trovare una stabilità ed un equilibrio. Alma decide di avvelenare di nuovo Reynolds: agli occhi di lei questo è un gesto innocente d’amore al fine di permettere al proprio amato il giusto riposo dal suo lavoro frenetico e stressante. Il protagonista, consapevole di quest’azione da parte della sua sposa, come con un filtro d’amore, decide in maniera consapevole di mangiare il pasto compromesso, in modo che Alma, ancora per una volta, si possa prendere cura di lui. 

Scritto da Francesca Pascale