Scritto da Jacopo Renzi

Pubblicato il 26/11/2020

Parasite è un film difficile di cui parlare: sfida ogni facile etichetta, si divincola senza essere inserito in un singolo genere, può essere considerato sia mainstream, per il vasto pubblico sia un capolavoro d’essai; ed è, innegabilmente, un film che si gode al meglio andando alla cieca, vivendo le sue deliziose e scioccanti sorprese con innocenza e credendole inconsapevolmente possibili. Insomma, trovare le parole per descriverlo è complesso. Se ce n’è una che, forse, può riassumerlo meglio è: Bong Joon Ho, il regista.Parasite è puro Bong Joon Ho, vale a dire che è molte cose contemporaneamente. Dal suo debutto nel 2000, Barking Dogs Never Bite, al film che lo consacrò a livello internazionale, Memories of Murder (2003), l’autore coreano ha sempre avuto una mente pruriginosa e irrequieta. Senza mai accontentarsi di un tono o un argomento, ha sfrecciato dall’horror al thriller, dalla fantascienza distopica a film di mostri vegani – a volte all’interno della stessa pellicola – assorbendo lungo la strada influenze sia da Hollywood (De Palma, Spielberg, Hitchcock) sia dalla sua nativa Corea (Kim Ki-young, Lee Chang-dong)

Questo, il suo settimo film, è nuovamente diverso: dopo l’intenso ritratto umano e materno di Madre (2009), la denuncia delle classi di Snowpiercer (2013) e quella ambientalista di Okja (2017), in Parasite scatta inizialmente qualcosa di simile al realismo sociale contemporaneo. Incontriamo la povera famiglia Kim – i genitori Ki-taek (Song Kang-ho) e Chung-sook (Chang Hyae Jin), con i loro figli adulti Ki-jung (Park So-dam) e Ki-woo (Choi Woo-shik), – abitare in uno squallido appartamento seminterrato. Sono disoccupati e apparentemente non in grado di trovare un lavoro, rubano tutto il Wi-Fi gratuito che i loro telefoni riescono a raccogliere, lasciano le finestre aperte in modo che le macchine disinfestanti della strada uccidano anche le cimici in casa loro, e guardano impotenti mentre i passanti ubriachi pisciano sulla strada sopra dove abitano. Hanno sicuramente visto giorni migliori. La vita è dura. Ma questa non è una tragedia di Ken Loach. I Kim sono ambiziosi e quasi machiavellici nella loro ingegnosità. Quando a Ki-woo si presenta l’opportunità di intraprendere qualche leggero sotterfugio mentre si finge un qualificato insegnante di lingua inglese per la figlia adolescente della ricca famiglia Park, la coglie. Non ci sono dubbi: i Kim sono un fronte unito sin dall’inizio, e si imbarcheranno in qualsiasi cazzata professionale ma necessaria per risollevarsi.

I Park, invece, sono in tutti i sensi i loro opposti economici e sociali: vivono in una grande villa modernista in un sobborgo collinare di Seoul, il padre Dong-ik (Lee Sun-kyun) è a capo di una società informatica senza nome, mentre sua moglie, la casalinga Yeon-gyo (Cho Yeo-jeong), si preoccupa dell’educazione dei loro figli, insieme alla governante permanente (Lee Jung-eun). Il loro è un mondo privilegiato e profondamente distaccato, che assicura ai membri della famiglia Kim, uno alla volta, di farsi strada nella casa dei Park.E così la prima ora del film si svolge come un gigantesco imbroglio, con tutto il ritmo e l’effervescenza di un Ocean’s Eleven. C’è una gioia malvagia nel guardare il piano ingegnoso dei Kim svolgersi, pezzo per pezzo: un paio di mutande accuratamente sistemate qui, uno sbuffo di polvere di pesca là. La sceneggiatura, scritta da Bong Joon Ho e Han Jin-won, ha la trama fitta e piena di suspense dei migliori thriller: a volte stressante, a volte oscuramente divertente, sempre costruita ad arte.

In ogni caso, il piano dei Kim va troppo bene, perché presto ci rendiamo conto che qualcosa deve andare storto: dove scoppierà il conflitto? La loro complicata mossa verrà svelata? Il colpo da maestro del regista è prendere questa tensione e usarla contro di noi, sovvertire selvaggiamente le nostre aspettative, presentare sfide inaspettate ai suoi personaggi e virare verso generi e toni diversi, per trasformare il film in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che rende, ancora una volta, difficile parlarne senza virare in spoiler.

Quello di cui possiamo parlare è il sorprendente lavoro che c’è stato dietro allo studio di questo film. Ci troviamo di fronte a un regista che sa esattamente cosa sta facendo e perché lo sta facendo. La sua camera si muove e scivola con totale sicurezza e convinzione, ogni pan e ogni carrello possiedono significato. Mentre scriveva la sceneggiatura, Bong disegnava anche i modelli delle case nel film, e ciò consentì al reparto scenografia di ottenere un vantaggio sul proprio lavoro. Ogni casa è stata progettata con finestre frontali per rispecchiarne l’essenza: per la famiglia povera, la finestra è piccola e la loro vista è quella di un ubriacone; per la famiglia ricca, è stata creata una finestra più grande e più ampia (descritta come avente un rapporto aspect ratio di 2.39.1), che si affaccia su un bellissimo giardino. Inoltre, la famiglia povera vive sottoterra, mentre la famiglia ricca vive su una collina. Ispirato da Anatomia di un rapimento (1963) di Kurosawa, il direttore della fotografia Kyung-pyo Hong muove un’illuminazione di grande impatto sul modo in cui vediamo i personaggi e le ambientazioni. Ad esempio, per distinguere ulteriormente le differenze tra ricchi e poveri, Kyung-pyo ha giocato con il sole e la sua mancanza: nella villa della ricca famiglia, la maggior parte degli interni della casa è inondata da una calda luce naturale per tutto il giorno; nel seminterrato della famiglia povera, la luce del sole arriva solo da una piccola finestra.

Fondamentalmente è un film sui ricchi e sui poveri. A volte il commento è tangibile: un personaggio osserva ripetutamente quanto siano allegoriche le cose che accadono, forse un cenno autoironico del regista stesso, che inonda di significato i suoi film. Anche il titolo è estremamente istruttivo: i Kim sono parassiti, come le cimici puzzolenti che infestano la loro squallida casa, che succhiano dalle ricchezze degli altri; ma lo sono anche i Park, una famiglia resa infantile e indifesa dalla loro fortuna, incapace di completare compiti di base senza arruolare servi della classe operaia per affinare le loro vite.

Nel tema della disuguaglianza si vede l’ambiguità di tutto questo. Non ci sono cattivi nella storia: la ricca famiglia Park è antipatica, ma alla fine simpatica, anche se, come nota la matriarca Kim con un tono velenoso, “sono gentili perché sono ricchi“; la povera famiglia Kim è bugiarda, mascalzona e criminale – se si vuol essere tecnici al riguardo – eppure si sta facendo strada solo attraverso lavori umili della classe operaia, stanno solo facendo quello che possono per sopravvivere. Se c’è un cattivo qui, è il capitalismo con le sue strutture, che costringono le persone all’indignazione, alla disperazione e al nudo interesse. Attraverso le sue tipiche montagne russe tonali, Bong regala al film uno straordinario finale agrodolce, offrendo tanto una speranza screziata dal sole quanto una nota umbratile di pessimismo e realismo. Egli vuole raccontare un sogno condiviso di coesistenza, ma più i suoi personaggi si avvicinano a trasformarlo in realtà, più diventa devastante vederlo andare fuori strada e schiantarsi su sé stesso.

Ma parlare di allegorie capitaliste e commenti sociali non dovrebbe sminuire quanto sia follemente divertente questo film, è difficile non guardarlo rapiti e sbalorditi. La sceneggiatura era stata scritta inizialmente per il teatro, ma l’esperienza sembra dover essere vissuta solo in un cinema affollato, dove le reazioni della folla hanno la stessa importanza di qualsiasi cosa accade sullo schermo. Anche nei suoi momenti finali, più malinconici, non diventa mai niente di meno se non assolutamente avvincente. In qualche modo, Parasite riesce a soddisfare ogni prurito cinematografico che si può avere, e offre molto più di quello che uno si aspettava inizialmente; e, personalmente, è tutto ciò che io voglio da un film.