Buio in sala, il proiettore prende vita, la luce viene proiettata sullo schermo: questo fa parte del fascino del film capace di dare vita alle nostre visioni notturne attenendosi a un realtà che, prima del cinema, poteva esistere solo dentro le nostre teste. 

Il primo film dei fratelli Lumière del dicembre 1895 è, in apparenza, il meno onirico possibile: mostra i lavoratori che lasciano una fabbrica parigina, spaccato di vita, scena di strada. Prive di colore, vistosamente silenziose, piene di movimenti a scatti quasi non-umani (colpa della manovella a carica manuale della cinepresa), queste prime immagini si trasformano in qualcosa di diverso dalla realtà che poteva essere effettivamente osservata dai parigini dell’epoca: i film dei Lumière diventano così involontariamente onirici. Al contrario i film del loro contemporaneo, Georges Méliès, sono vere e proprie fantasmagorie: creature macabre e fantasie miracolose che prima potevano essere immaginate solo nelle storie per bambini o nei libri illustrati popolano adesso lo schermo. Gli esseri umani mutano pelle e si trasformano in scheletri, i diavoli portano scompiglio, le sirene posano lussuriosamente, gli oggetti svaniscono nel nulla, gli uomini fanno viaggi sulla luna e incontrano esseri metamorfici: Méliès crea sogni ad occhi aperti e l’oscurità in cui prende forma la proiezione assomiglia sempre più alla morbida benda del sonno.

Incantati dalle visioni uniche che i film allora offrivano, critici e commentatori tracciano rapidamente l’analogia tra film e sogni. Nel 1907, Rémy de Gourmont scrive che il cinema è “il posto migliore per riposarsi: le immagini passano portate in alto da una musica leggera. Non c’è nemmeno bisogno di preoccuparsi di sognare”. Cinque anni dopo, il critico Jules Romains gli fa eco: mentre il proiettore prende vita, “il sogno di gruppo inizia. Dormono; i loro occhi non vedono più. Non sono più consapevoli dei loro corpi. Invece ci sono solo immagini passeggere, uno scorrere e un fruscio di sogni”. Alla fine del decennio, Louis Delluc afferma che le stesse star del cinema sono creature oniriche, più grandi della vita e irresistibilmente magnetiche. Con Charlie Chaplin e Sessue Hayakawa (l’attore giapponese che ha recitato nel capolavoro di Cecil B. DeMille The Cheat del 1915), Delluc scrive, “lo spettacolo della vera bellezza ci rivela a noi stessi. E riconoscere, dietro la tragica volontà di Hayakawa e la comica frenesia di Chaplin, un’eco di sofferenza o di sogno, ecco il segreto di un’infatuazione”.

Forse più di Chaplin, però, un altro comico muto americano ha riconosciuto i legami tra sogno e cinema. In Sherlock, Jr. (1924), Buster Keaton interpreta un proiezionista che si addormenta sul lavoro e sogna di entrare nel film come detective. Gli altri personaggi sono incarnati dai suoi conoscenti del mondo reale, ma il concettuale punto cruciale di Sherlock, Jr. arriva mentre Buster si abitua al suo nuovo ambiente cinematografico, apparentemente entrando nello schermo del film e realizzando che può fare il giro del mondo in un batter d’occhio (o, più precisamente, in 1/24 di un secondo). Una serie di rapide immagini lo mostra mentre passa da un vivace incrocio a un ripido precipizio di montagna, da una giungla africana a un deserto arido, il tutto realizzato attraverso rapidi tagli. Sogno e cinema sono letteralmente intrecciati qui; in effetti, dove altro la realtà fisica può sembrare cambiare forma in una frazione di secondo? Come nei sogni, lo spazio e il tempo qui si piegano e si intrecciano, prendono vita e sfilacciano i propri confini. Tutto torna, come dice Fellini: “Parlare di sogni è come parlare di film, poiché il cinema usa il linguaggio dei sogni; gli anni possono passare in un secondo e puoi saltare da un posto all’altro. È un linguaggio fatto di immagini. Ogni oggetto e ogni luce significano qualcosa, come in un sogno”.

Buster Keaton in Sherlock ,Jr.

Scritto da Alice De Santis