Scritto da Ludovica Lancini

Pubblicato il 26/05/2020

Paterson può essere definito un film di immagini, di silenzi, di quotidianità, quasi di attesa. Per tutto il tempo si ha come la sensazione che, da un momento all’altro, debba succedere qualcosa di tragico, che Paterson, il protagonista interpretato da uno splendido Adam Driver, prima o poi possa perdere le staffe di fronte all’ingenuità della compagna o alle costanti lamentele del capo. Una poesia nella poesia, una suddivisione in atti scandita dagli stessi scritti del protagonista, che appaiono in sovrimpressione, una quotidianità mostrata quasi come un rituale, nel quale gli stessi gesti vengono ripetuti continuamente, senza perdere mai di significato e rimanendo originali. Jim Jarmusch abbandona i vampiri e i toni più gotici di Solo gli amanti sopravvivono (2013), per dedicarsi ad un film sui piccoli gesti della vita. Paterson è un autista di autobus nella cittadina di Paterson, patria del poeta William Carlos Williams, vissuto tra il 1883 e il 1963.

Sono molto interessanti i discorsi con la moglie Laura riguardo questo artista e il fatto che lei confonda spesso il suo intero nome, chiamandolo più volte “Carlo Williams Carlos”. La questione del doppio, evidente già nel nome del protagonista, accompagna il film fin dalla prima battuta, in cui una Laura quasi ancora addormentata racconta a Paterson del sogno fatto durante la notte: avere due figli gemelli. I gemelli torneranno molto spesso, quasi come se Paterson ne fosse popolata per la gran parte. Interessante anche il rapporto nella coppia, con un protagonista molto pratico e una Laura costantemente con la testa tra le nuvole, un’artista sorridente, sbadata, che non dà troppo peso al denaro e alla materialità.

È come se ci fosse un contrasto evidente tra i due, ma anche un dialogo continuo, come se la loro diversità li portasse a comprendersi meglio. Il dualismo e la ripetitività tornano anche nel titolo stesso dell’opera: Paterson (di cui non viene mai dichiarato il cognome, come se fosse solo Paterson), la cittadina di Paterson, il pullman con la scritta “Paterson-23” ne sono i segni più evidenti. La ripetitività è costante: nelle giornate del protagonista, nei disegni di Laura, nei cerchi neri che disegna ovunque (persino nella frutta nel cestino del pranzo), nella chitarra a scacchi, nei cupcake, nella coppia che si insegue nei bar, nel cane lasciato ad aspettare fuori dal piccolo locale, altra costante nella vita del protagonista, insieme alla birra bevuta ogni sera. Anche le inquadrature scelte dal regista per ogni giornata della settimana di Paterson sono ripetitive, dalla stessa poesia scritta e riscritta ogni mattina appena salito sull’autobus poco prima di iniziare a lavorare, alle viuzze che separano casa dal posto di lavoro, alla cassetta delle lettere che raddrizza ogni giorno e che puntualmente troverà inclinata nuovamente la sera successiva. La quotidianità si arricchisce anche da piccoli gesti diversi, come l’uscire a cena e andare al cinema a vedere vecchi film horror o da un pullman che si rompe a metà servizio.

Non ci sono mai attacchi di rabbia o di ira da parte del protagonista, sereno nella sua vita tranquilla, quasi perfetta… forse. Sorride nell’ascoltare i racconti delle persone sul pullman, discorsi in cui si intervallano chiacchiere tra amici a racconti su Gaetano Bresci, l’anarchico italiano che assassinò il re Umberto I, tra due giovani ragazzi. D’impatto, in un piccolo gioco di citazionismo tipico di Jarmusch, è la scelta degli attori che interpretano questi due ragazzi, Kara Hayward e Jared Gilman, la coppia protagonista, ormai cresciuta, di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson. I bambini di Moonrise Kingdom, scritti di doppia mano da Anderson e Roman Coppola, “sono come pezzi d’argilla che in maniera inesperta provano a modellarsi dopo anni in cui sono stati formati e influenzati dagli altri” (Matt Zoller Seitz). Nell’opera di Wes Anderson, i due ragazzi vogliono ribellarsi ad ogni tipo di imposizione sociale e familiare cercando di costruire il proprio privato Eden e dimostrandosi per alcuni aspetti caratteriali ed organizzativi molto più adulti degli adulti stessi (caratteristica costante nella cinematografia di Anderson).


Nel caso di Jarmusch, la coppia sembra la stessa e viene presentata anche qui in un contesto particolare. Infatti, durante la loro breve discussione, che fa sorridere Paterson e attira su di loro lo sguardo di due passeggere (ancora una volta gemelle), arrivano ad auto definirsi gli ultimi anarchici rimasti nella cittadina, prima di scendere e di riprendere a parlare della scuola e delle rispettive lezioni e tornando dunque alla “normalità”.
Ogni piccola cosa è parte del tutto, ma ognuna, anche se in piccolo, ha la sua unicità. Suggestivo l’incontro finale tra un Paterson diverso dal solito, ma sempre molto composto, e un altro personaggio che sembra quasi venuto dal cielo, che si presenta nel momento giusto e che usa le parole e i gesti giusti, e che fa sorridere il protagonista che sembrava quasi essersi perso.