Un quadro bianco, la luce esplode dallo schermo, si intravedono degli alberi ondeggiare al vento, inizialmente soffusi poi sempre più nitidi. Uno stacco netto e vediamo Anne, la protagonista, che si muove verso l’aula universitaria della città di Angoulême. Il professore prima della prova cita alcuni versi di Victor Hugo: “Ci terremmo l’onore il resto lo daremo via, e camminiamo con la rabbia negli occhi e le pallide fronti dove c’è scritto fede, coraggio, fame e le truppe continuano a marciare a testa alta issando la sacra bandiera a brandelli”. Si conclude così il film La scelta di Anne di Audrey Diwan, secondo lungometraggio della regista tratto dal romanzo L’evento di Annie Ernaux e ambientato nella Francia antiabortista degli anni sessanta, quando scegliere diventa un evento nascosto e sotterraneo. 

Si vuole mettere in luce del perché un libro ambientato nella Francia degli anni sessanta sia stato scelto da una giovane regista: c’è davvero ancora bisogno di parlare di aborto? E di come Il cinema rimane lo strumento e il miglior testimone per restituirci storie che sembrano individuali ma in realtà sono collettive. La scrittrice Annie Ernaux sceglie di scrivere questo libro basandosi sulla sua esperienza personale: da ragazza ha cercato disperatamente di abortire in un periodo storico che non le riconosceva questo diritto. Così facendo, Ernaux non solo scrive di sé stessa ma mette per iscritto la vergogna e le difficoltà che molte altre donne hanno incontrato. Sceglie di scriverne diversi anni dopo, a seguito di una visita in ospedale per sottoporsi ad un test dell’HIV. L’attesa dei risultati le rievoca un’esperienza di tutt’altro genere, ma che ha comunque scandito la sua vita: “Mi sono resa conto di aver vissuto quel momento all’ospedale Lariboisière esattamente come l’attesa del verdetto dal dottor N. nel 1963, immersa nello stesso orrore e nella stessa incredulità. La mia vita si situa dunque tra il metodo Ogino-Knaus e il preservativo a un franco dei distributori automatici. È un buon modo per misurarla, più sicuro di altri, in ogni caso.”

Il testo prende vita attraverso le immagini, quasi vent’anni dopo. Anne, ragazza di 23 anni, frequenta l’università di lettere ed è sicuramente una delle migliori del corso. Rimane incinta e sceglie, sceglie di voler continuare gli studi. Non è stato quindi difficile identificarsi con lei perché la sua storia potrebbe tranquillamente essere la mia o di qualunque altra collega. Lo schermo, e in particolare la sala cinematografica, diventa il luogo dell’emancipazione femminile come lo è stato dalle sue origini, quando le donne facevano le prime uscite da sole andando al cinema per vedere sé stesse. Il personaggio di Anne è tutte noi, ieri ed oggi. La regista Deiwan dichiara: “ Qual è il destino di una giovane donna che si misura con un aborto clandestino? Spesso, possiamo solo cercare di indovinare la risposta. Quando ho deciso di realizzare l’adattamento di L’événement di Annie Ernaux, ho cercato di trovare il modo per catturare la natura fisica dell’esperienza, di tenere conto della dimensione corporea del percorso. La mia speranza è che l’esperienza trascenda il contesto temporale della storia e le barriere di genere. Il destino delle giovani che hanno dovuto ricorrere a questo tipo di operazioni è rischioso, insopportabile. Tutto quello che ho fatto è stato cercare la semplicità dei gesti, l’essenza che potesse veicolarlo.” Quando Deiwan, quindi, ha scelto questa storia è stato per ricordarci l’importanza dei diritti che sono stati conquistati oggi, e di quello che hanno passato le nostre madri per ottenerli. Ma ci ricorda anche che in molti paesi l’aborto è ancora vissuto esattamente come lo viveva Ernaux. L’11 maggio 2022 una donna è stata condannata a 30 anni di carcere in El Salvador, uno dei paesi con la legislazione più restrittiva del mondo sull’aborto che prevede pene qualora l’interruzione di gravidanza avvenisse per cause naturali. “L’interruzione di gravidanza è equiparata all’omicidio aggravato anche in caso di aborto spontaneo”. E  solo pochi giorni fa la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che per le donne poter scegliere di non diventare madri non è un principio di libertà fondante, ma un tema amministrativo demandabile ai governi dei singoli stati. La deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez è scesa in piazza con le manifestanti e ha raccontato davanti un suo fatto  personale spiegando l’importanza che ha per una donna scegliere di abortire: “Ero seduta sul pavimento di un lurido bagno pubblico di New York, pregando dio che il test fosse negativo, e ringraziando dio perché nell’ipotesi peggiore avrebbe avuto una possibilità. L’aborto. Perché era stata stuprata.”

Non si può smettere di parlare di  un diritto che viene costantemente messo in crisi, mai dato veramente per assodato. Deiwan riesce nel suo obiettivo rendere il cinema una finestra sul corpo rimanendo sempre coerente alle sue scelte formali, spogliando il film di qualsiasi artificio e moralismo, puntando solo alla conoscenza. Questo le permette di individuare l’ipocrisia sociale intorno alla sessualità in quel contesto storico, passando dai medici ai quali Anne chiede disperatamente aiuto – ma che a sua insaputa le prescrivere una medicina per rinforzare il feto – fino al giudizio delle compagne di stanza che appena scoprono la situazione dell’amica decidono di lasciarla sola “perché è un problema che non le riguarda”. Fortunatamente, in questo vuoto, trova finalmente qualcuno che può aiutarla: una donna che vive a Parigi, esperta in pratiche abortive illegali. La missione non è solo rimanere viva, ma sperare che i dottori in ospedale le diagnostichino “aborto spontaneo”, perché altrimenti Anne potrebbe finire in galera. Esattamente come la donna che oggi è in carcere per aver scelto del suo corpo in El salvador. È un rischio, ma solo in questo rischio Anne potrà ottenere la sua libertà. Da qui in poi è una corsa contro il tempo. Il ritmo del film diventa sempre più incalzante con uno stile che rinuncia ad ogni elemento spettatoriale, portando l’attrice e solo la materialità del corpo al centro di tutto. Avviene quello che Cesare Zavattini, nell’ambito della sua lunga collaborazione con Vittorio De Sica, teorizzava come “il cosiddetto pedinamento del coinquilino”. In altre parole “la macchina da presa segue un uomo per la strada, lo accompagna nel suo vagabondare, nei suoi incontri fino a farne scoprire l’indole e quindi a crearne la storia. L’esistenza di un vicino di casa può essere interessante a patto però di riuscire a estrarne il succo”. Diwan, nella sua dichiarazione, ci ha esposto il desiderio di voler raccontare la storia di un corpo che si trasforma con il tempo, ed è attraverso questa scelta estetica che riesce a restituire esattamente la natura dell’evento disturbante e quasi stomachevole. Soprattutto nel suo atto finale, in cui la protagonista inizia a sanguinare nella sua stanza, con il feto che sta per uscire dal suo corpo, chiede disperata alla sua coinquilina di tagliarle il cordone, per poi arrivare di corsa in ospedale in cui le viene finalmente diagnosticato “aborto spontaneo”. L’eroina Anne è finalmente libera. Liberazione rappresentata visivamente da un quadrato bianco che appare solo per qualche secondo. Nel cinema contemporaneo, soprattutto negli ultimi anni, c’è stata l’esigenza di raccontare storie incentrate sul corpo femminile, L’événement, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2021, non è la sola opera recente che tratta questo argomento così delicato. Pensiamo Al ritratto della giovane in fiamme di Celine Sciamma, che racconta a sua volta la tematica dell’aborto clandestino tramite la storia romantica di due donne; oppure a Titane, body horror diretto da Julia Ducournau e vincitore a Cannes della Palma D’oro sempre nel 2021. C’è la voglia e la possibilità di raccontare attraverso le immagini avvenimenti di cui un tempo si urlava allo scandalo, dopo tante battaglie e finalmente a testa alta, con onore e la voglia di camminare ancora, come diceva Hugo, citato alla fine del film.

Scritto da Sofia Buttarelli