Io, se volessi spogliarmi, in alcune situazioni ci dovrei pensare un attimo. Eppure non vorrei fosse così. 

Nell’ultimo anno – negli ultimi mesi in realtà – mi sono accorta di essere (stata) inconsapevolmente soggetta, in quanto donna, a tante limitazioni. E più me ne rendo conto, più ci penso, più la cosa mi fa uscire di testa. 

E che sono fortunata. Lo sono davvero, se penso al contesto privilegiato in cui vivo, che comprende soprattutto le persone di cui ho scelto la compagnia.  Succede, però, che ogni tanto mi imbestialisca anche con alcune di loro: capita quando noto un’inconsapevolezza e un’ingenuità da parte di chi a volte mi fa discorsi che proprio non si possono sentire: qualche parente, ad esempio. O qualche persona troppo anziana per saper problematizzare il modo in cui è stata cresciuta.  E questa rabbia non la posso rivolgere a loro, ma voglio e devo indirizzarla alla società patriarcale putrida che ha inculcato alcuni modi di pensare ormai cementificati nella nostra mentalità.

Ma tornando allo spogliarsi.

Circa un anno fa CHEAP Festival ha affisso un manifesto che diceva: “La sessualizzazione del seno femminile non è una verità universale. Piedi, glutei, spalle accendono la libido in altre culture. C’è chi si eccita a guardare la maniglia di una porta che viene succhiata. E va bene così”. Poco tempo dopo il team Capezzolo, ripostandolo, ringrazia il CHEAP: “Ciò che è scritto qui è ciò per cui ci battiamo ogni giorno […]. Questo è il nostro credo […]. Ciò che vogliamo rappresentare è proprio questo, non esistono verità universali, non esistono normalità. Esiste solo il libero arbitrio, non esiste qualcuno che ci mette in testa ciò che è giusto e ciò che non è giusto, e quando esiste, dobbiamo essere consapevol* che sia così e decidere se per noi va bene oppure no”.

Ho voluto declinare il verbo spogliarsi partendo proprio da qui. Da Capezzolo, nello specifico. Perché?  Perché è un brand con cui vestirsi ma che ci parla dello spogliarsi.  Capezzolo trasforma le proprie creazioni in lotta politica, cercando di abbattere tabù di genere, disuguaglianze e stereotipi. Qualche mese fa, quindi, ho contattato Tania, una delle fondatrici del brand, chiedendole se avesse voglia di rispondere a qualche domanda. È nata una piccola intervista di cui sono tanto contenta.  Un po’ declinata nel linguaggio cinematografico – giusto per non allontanarmi troppo dall’ambito a cui Quarta Parete appartiene -, spero possa regalare qualche spunto di riflessione. Ad esempio il fatto di problematizzare, sempre.  

Ciao Tania, abbiamo tristemente notato che Instagram, ancora una volta, aveva censurato la vostra pagina, insieme al profilo di riserva.  Quanto spesso vi capitano situazioni di questo tipo? E come le gestite?

Sì, un paio di mesi fa Instagram ci ha eliminato il profilo ed abbiamo dovuto ricorrere all’aiuto di un avvocato per risolvere il problema. Purtroppo, anche se si rispettano in toto le linee guida di Instagram, censurando ad esempio i capezzoli, spesso i post e le storie vengono segnalate e successivamente rimosse. Succede davvero troppo spesso e la cosa frustrante è che non si ha la possibilità di confrontarsi con la piattaforma direttamente. 

Credi che * influencer potrebbero/dovrebbero avere un ruolo più attivo e determinante per combattere lo shadow ban o sostenere il movimento #freethenipple? 

Nella nostra community sono già presenti molti e molte influencer attivist* che cercano di sdoganare vari tabù (mestruazioni, capezzoli femminili, masturbazione femminile), credo quindi che i temi femministi siano già affrontati e credo anche che non ci sia l’obbligo di affrontarli se non si è realmente interessat*. Lo shadow ban è un problema di molt*, ma purtroppo Instagram è una piattaforma privata che agisce in maniera abbastanza dittatoriale e spesso ipocrita. 

Che significato attribuisci alla parola censura? Ti sei mai chiesta fino a che punto la condivisione di contenuti su Instagram sia lecita?

La censura è uno strumento sociale atto a limitare la nostra libertà di espressione, in qualsiasi contesto. Nel caso specifico di Instagram, essendo un social aperto a tutt*, senza limiti di età, sarebbe lecito censurare gli organi sessuali quando esposti esplicitamente in chiave erotica. Il nudo non è sinonimo di pornografia, dobbiamo ripetercelo costantemente. 

Che differenza c’è secondo te tra un’immagine di nudo femminile in un film e quella inserita nei social? 

Nessuna, è il contesto specifico a definire l’eventuale differenza. Il nudo può essere utilizzato e strumentalizzato per innumerevoli scopi: storici, artistici, politici ecc. 

Pensi che inserire in modo forzato il nudo in alcune situazioni (ad esempio in un film) possa diventare controproducente per l’obiettivo di normalizzazione che sta alla base di questa scelta?

Qualsiasi scelta forzata e non realistica diventa automaticamente controproducente. Ad esempio, anche parlare di femminismo solo l’8 marzo, crea confusione e svuota il dibattito di contenuti e significato 

Come pensi che possa liberarsi il corpo femminile in un contesto limitato (ad esempio nei social)? Nel caso del cinema, sappiamo che un’attrice può scegliere se girare scene di nudo o no.  Ma credi che questa liberazione possa avvenire anche nel dare a un’attrice la possibilità di decidere quanto spesso e come girare determinate scene piuttosto che lasciare questa decisione solo al regista? Oppure il fatto che sia il regista a scegliere implica già una normalizzazione della cosa?  

(Pensavamo al caso Euphoria, dove nella serie un’attrice mostra molto spesso il seno per via della trama, scelta che è stata criticata e definita di “estrema sessualizzazione”. In effetti poi, laddove non era necessario girare certe scene ai fini della trama, l’attrice ha chiesto al regista di ridurle).

Normalizzando la visione del corpo femminile e soprattutto dando al genere femminile la possibilità di scegliere se e come mostrarlo. Il cinema non è un argomento che mi compete e non ho visto la serie Euphoria, ma quello che mi viene in mente è che il cinema è arte e l’arte è la rappresentazione della società. Se il regista non è interessato a normalizzare il corpo femminile, ma anzi a sessualizzarlo, perché dovrebbe porsi dei limiti? L’attrice dovrebbe essere messa al corrente prima di firmare il suo contratto di quali e quante scene di nudo dovrà girare, per fare una scelta consapevole. Il consenso è sempre alla base di ogni cosa. Credo che il regista nel caso cinema sia l’artista principale, e come tale non dovrebbe essere limitato dai “colori” del proprio quadro. La sessualizzazione del corpo femminile è un problema culturale, il cinema ne ha fatto estremo abuso e continuerà a farlo finché non cambierà la nostra marcia cultura patriarcale. 

Scritto da Silvia Lo Castro.