Scritto da Redazione

Pubblicato il 15/07/2020

C’è un film di Werner Herzog, che non è tra i suoi più ricordati per ragioni sia valide sia forse meno, che s’intitola Wo die grünen Ameisen träumen (Dove sognano le formiche verdi, 1984). In questo film si racconta di una certa società mineraria, si presume ricca e forse multinazionale, dedita alla ricerca di metalli preziosi nelle vaste regioni desertiche e apparentementi insignificanti dell’Australia interna. Eppure, in questa tabula rasa circondata da inafferrabili orizzonti, quel luogo in cui si vorrebbe scavare poiché racchiude forse nulla o forse una fortuna, è in realtà un luogo sacro, di per sé inestimabile più di qualsivoglia materia prima, per le popolazioni aborigene. Al di là del racconto, quanto qui ci interessa è un aborigeno in particolare. Esso non parla. Non parla non perché muto – viene detto muto -, ma perché ultimo custode di una lingua che solo lui oramai parla e comprende, essendo l’ultimo rimasto della sua tribù e ultimo parlante della relativa lingua. Così, quando proferisce parola davanti alla corte del tribunale, sbigottita in quanto riteneva quel signore muto, ecco che ci si sorprende guardando il dito e non la luna. L’essere l’ultimo custode di una lingua pone il nostro personaggio come esempio di quanto avviene per ciascuno di noi: ognuno di noi possiede una lingua incomprensibile per l’altro e di cui ignoriamo noi stessi la grammatica. Siamo muti l’uno per l’altro poiché, nel costante tentativo di vocalizzare la nostra lingua, immancabilmente e inesorabilmente falliamo.

Resta, seppur coperto da suoni, un silenzio. Ma – come per il nostro aborigeno – “il silenzio è privilegio del parlante”, ci dice il filosofo Aldo Masullo. Specifica: “Il silenzio non è una semplice assenza, ma una presenza venuta meno; non è il niente, ma lo scacco di una possibilità dell’essere. La presenza venuta meno o la possibilità mancata è la parola”. In sostanza non possiamo che dire un silenzio, il quale appare come presenza significante, “il silenzio è parola”. Una parola che dice innanzitutto “l’invalicabile limite [dell’individuo], l’impossibilità di far sentire ad altri il suo sentire”. In uno scacco che porta da una parte all’autocoscienza di sé, dall’altro genera il rischio di un dolore annichilente, che “colpisce la coscienza fino al punto di annientarla”. Ad accompagnare noi muti aborigeni herzoghiani restano i versi, in questo caso di Fëdor Tjutčev, poiché “soltanto la parola poetica […] vive – patisce – la solitudine autentica e ne è epifania […] La solitudine autentica  – diremmo noi come quella dell’ultimo uomo superstite della propria tribù – infatti non può dire l’indicibile che essa è. Tuttavia, per non lasciarsi ridurre al silenzio, si fa parola poetica”…

Dove sognano le formiche verdi

Taci, nasconditi ed occulta

i tuoi sogni e sentimenti;

che nel profondo dell’anima tua

sorgano e volgano a tramonto

silenti, come nella notte

gli astri: contemplali tu – e taci.

Può palesarsi il cuore mai?

Un altro potrà mai capirti?

Intenderà di che tu vivi?

Pensiero espresso è già menzogna.

Torba diviene la sommossa

fonte: tu ad essa bevi – e taci.

Sappi in te stesso vivere soltanto.

Dentro te celi tutto un mondo

d’arcani, magici pensieri,

quali il fragore esterno introna,

quali il diurno raggio sperde:

ascolta il loro canto − e taci!…

(Silentium!, traduzione di Tommaso Landolfi)