“Non so quanto tempo era passato. Ero intorpidita, disorientata ma cosciente, svestita, incapace di muovermi come volevo. Il buio era totale, oltretutto non sapevo nemmeno perché fossi lì. 

Immobile, mi addormentai in quel torpore.

Poi successe qualcosa di inaspettato: uno spiraglio di luce, come una rivelazione, venne a colpire l’interno di quello spazio. Fu allora che mi resi conto di non essere sola. Da quella fessura luminosa, lui mi guardava. Piegò la testa – Sei pronta? – disse con aria affabile – Forza. Stai per nascere. 

– Cosa? Fermo! – ero sbigottita. – Cosa mi aspetterà là fuori? Vorrei almeno capire a cosa sto andando incontro. Sto morendo di paura.

– Ma non puoi morire ancor prima di nascere! – ridacchiò. – Mi dispiace, un abbraccio ti farebbe stare meglio?

– Sì.

– Allora devi venire, gli abbracci, come i baci, lì non ci sono. Sta tutto qui fuori. – mi fece cenno di uscire – E vedrai, – aggiunse, – anche se non sempre ti sembrerà così, vivere sarà una passeggiata.”

Una volta avevo scritto questo dialogo, ispirata dalla storiella di un fumettista.

Il dialogo di una nascita, o forse di una vita. Vita insieme a tutto l’amore che lungo il percorso si può incontrare. 

E proprio guardando un breve cortometraggio, pochi giorni fa, questo breve pezzo mi è tornato in mente.

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Il corto – 12 minuti – è quello di Kato Kunio, si chiama La casa dei piccoli cubi (visibile anche su YouTube). 

Un anziano, con pipa in bocca e cappellino in testa, vive da solo in una casa che ha la grandezza di una stanza, i muri sono tappezzati di foto. 

La città è sommersa dall’acqua (Venezia?) e man mano che il livello del mare sale, gli abitanti si trovano a dover costruire un altro piano e trasferirsi un po’ più su. 

Succede che in un attimo di distrazione la pipa (l’inseparabile pipa) cada in acqua, attraversi una botola che collega il nuovo piano terra a quelli sottostanti. Non ci pensa due volte, il vecchio decide di recuperarla, si immerge e inizia la discesa.

E qui scatta un viaggio emozionante, quello fisico e mentale dentro il palazzo della propria memoria.

Da un piano all’altro, l’anziano attraversa ogni stanza e ad ogni stanza viene travolto dai ricordi ad essa legati.

E ancora, un poco più giù, all’ultimo piano – che poi in realtà era il primo -, si riattiva questo incantesimo color seppia, dove il flusso della memoria riporta il vecchio fino al tempo della sua infanzia, quando ancora l’acqua era lontana e lui giocava assieme alla bimba, poi donna, che sarebbe stata la compagna di una vita.

In un momento di tenerezza – e di momenti del genere, in questo periodo, se ne sente il bisogno – consiglio di regalarsi questi 12 minuti. 

Mentre si è in bagno, a letto, in treno, non importa.

È un percorso a ritroso nella propria esistenza, quello che il vecchio fa addentrandosi nella propria casa immersa.

Dalla nascita fino alla fine della vita, è un bilancio sull’amore ricevuto, costruito, condiviso e moltiplicato. 

E se quel dialogo che avevo scritto mi ha ricordato questo corto, è perché Kato Kunio ha saputo chiudere ciò che per me la nascita aveva anticipato. E, paradossalmente, lo ha fatto senza dialogo.

Questa assenza, che poi è la stessa che si ripropone nella vita di una persona ormai sola, ci ricorda che per emozionarsi non c’è bisogno di parole.

E che l’amore non si esaurisce ma rimane lì, conservato nella propria torre di ricordi, in attesa di un ultimo brindisi alla sua memoria. 

Scritto da Silvia Lo Castro