Scritto da Jacopo Renzi

Pubblicato il 22/06/2020

PREMESSA

Il presente articolo cerca di porsi come una sorta di analisi della filmografia del regista giapponese Sono Sion. Prendendo in esame una buona parte della sua carriera, cercherò di seguire un percorso che vada a sviscerare la sua poetica. Trattandosi perlopiù di un flusso di coscienza, l’articolo potrà risultare confusionario ma l’obiettivo rimane quello di presentare e far conoscere la figura di un regista che (purtroppo) in Occidente non ha mai avuto il successo che merita – complice una distribuzione sul territorio nostrano praticamente inesistente – nonostante le sue opere siano state presentate in numerosi festival europei e italiani (Torino Film Festival e Far East Film Festival primi fra tutti).

Sono Sion

Sono Sion inizia in veste di poeta che, pur raggiungendo una certa notorietà, rifiutava di pubblicare le sue poesie, per evitare l’omologazione dei caratteri stampa. Si mette così a scrivere poesie in forma di graffiti sui muri, e a fotografarle. Quando sente la necessità di conferire loro anche una dimensione di movimento temporale, inizia a filmarle con una cinepresa 8mm. Da questo passaggio multiplo – trasformare il pensiero in parola scritta e conferire il movimento all’immagine di questa – nasce il cinema di Sono Sion. Il passo successivo è stato poi quello di voltare la cinepresa su di sé pronunciando una semplice frase: “Buongiorno, sono Sono Sion”. A ventidue anni Sono si presenta così al cinema, in primo piano, a spalle nude, rivolto allo spettatore, pronunciando quella frase che farà da titolo per il suo primo lavoro: I Am Sono Sion!  (Ore wa Sono Sion da!, 1985).

Questo approccio all’arte da parte di Sono può considerarsi una contaminazione/sovrapposizione di varie forme di quest’ultima, che è alla base della storia dell’arte giapponese, dove i confini tra le diverse discipline sono sempre stati labili: basti pensare alla narrativa dipinta sugli antichi rotoli o al teatro Bunraku. La poliedricità artistica di Sono Sion, regista, scrittore, poeta e anche musicista, non può non ricordare la figura di Terayama Shuji (regista, poeta e drammaturgo appartenente alla corrente surrealista), a cui Sono si è evidentemente ispirato per quello che andrà a costruire il suo cinema e le due fasi che lo compongono. La prima, che parte dai lavori giovanili girati in Super 8 di metà anni Ottanta, è quella sperimentale, underground; la seconda, che inizia con Suicide Club (Jisatsu Sākuru, 2001), è quella più commerciale, mainstream, con film ad alto budget, inseriti all’interno degli studio system giapponesi, ma che dimostra la grande maturità artistica.

GIOVANI RIBELLI

Nelle sue prime produzioni, Sono Sion si presenta come un giovane che cerca di mostrare la sua genesi artistica attraverso sperimentazioni del mezzo cinematografico. A partire da Bicycle Sighs (Jitensha toiki, 1990), opera praticamente autobiografica, dove il protagonista porta avanti un progetto di filmare scritte in gesso sui muri con una cinepresa Super 8. O Anche Utsushimi (2000), un non-film composto da molti film in uno, probabilmente solo schizzi che Sono aveva in mente e che ha inserito casualmente insieme.
Le particolarità di queste prime opere sono due: una messa in scena dallo stile vertiginoso, caotico con elementi grotteschi, drammatici e ironici che faranno il marchio di fabbrica del regista; una freschezza visiva dal sapore di Nouvelle Vague, che può portare alla mente un Bande à part, rivelandosi come un primo forte segnale di critica alla società giapponese dell’epoca e un senso di ribellione molto presente. Elemento altrettanto presente in questa prima fase è la raffigurazione di un mondo marginale, ambientato in luoghi industriali e di degrado. Tutte queste tematiche saranno riprese in maniera massiccia, adulta e manierista nella seconda fase artistica di Sono, quella commerciale. Bene o male, tutti i film della seconda fase possono essere presi come romanzi di formazione e hanno come protagonisti giovani o adolescenti (alter ego del regista del primo periodo), alle prese con le esperienze spesso traumatiche della vita. Ma, ancora più protagonista, sarà la famiglia, e la sua totale disfunzione, che Sono rappresenta perfettamente in maniera metaforica e allegorica, sfruttando temi legati irrimediabilmente ad una forte polemica contro la rigidità e la freddezza della società giapponese.

Sono Sion fa il simpatico


A partire infatti da Suicide Club, la forma artistica del regista nipponico, assume nuove forme. Con quest’opera, Sono difatti dimostra di saper passare da un genere all’altro: horror, poliziesco, thriller psicologico, persino commedia nera. Tutti coesistono e si completano a vicenda. Nella messa in scena Sono assume tre qualità della società giapponese: precisione, disciplina e collettivismo. In primo piano attacca i mass media che dovrebbero rallegrare il pubblico, ma difatto stanno diffondendo la malattia che, nel film, porta al suicidio di massa. Un nuovo elemento compare che sovrasta tutti gli altri: Internet, che consente un diverso (e molto più efficiente) tipo di connessione interpersonale (il film è uscito prima del boom dei social media). Da questo momento in poi il nome “Sono Sion”, comincia ad essere sulla bocca di molti produttori, vogliosi di poter entrare finalmente in contatto con l’artista che negli anni successivi verrà soprannominato il signore del caos

FOTOGRAFARE LA SOCIETÀ

Reduce dal successo di Suicide Club, Sono decide, inaspettatamente, di scrivere e dirigere il seguito di quest’ultimo: Noriko’s Dinner Table Noriko no Shokutaku, 2005). Qui, però, il Suicide Club è solo una distrazione marginale, che si presenta qua e là ma non viene mai veramente esaminato in profondità né risolto: possiede una messa in scena totalmente diversa. La storia è raccontata attraverso voci fuori campo, che raccontano le sensazioni e le storie dei personaggi attraverso un flusso continuo di flashback. Visivamente, il film conferma Sono come un maniaco visionario, capace di mescolare paesaggi, interni e volti di un mondo, per andare a riflettere su temi quali la solitudine, la famiglia e l’alienazione nella società giapponese.

Frame di Noriko’s Dinner Table; Sono parla attraverso la protagonista, trasmettendo il pensiero di libertà individuale

Seguirà Strange Circus (Kimyō na sākasu, 2005), thriller contorto, enigmatico e onirico, che segue la storia di Mitsuko, che dall’età di 12 anni inizia ad essere abusata sessualmente dal padre, il quale periodicamente, la chiude dentro una custodia di un violoncello dotata solo di uno spioncino, perchè vuole che assista ai rapporti sessuali con la madre. Sono segue correnti quasi di scandalo, quali incesto e pedofilia, ma funzionali a un tema maggiore: la perdita di identità nella società giapponese, che porta irrimediabilmente ad una distruzione del contesto familiare. Con quest’ultimo film, si conclude quella che viene chiamata “trilogia dell’alienazione”, iniziata con Suicide Club e proseguita con Noriko’s Dinner Table.

Frame di Strange Circus; nell’atmosfera surreale e onirica del film, l’omaggio a 1984 di Orwell è più che palese


Attraverso ciò è possibile individuare come il regista nipponico riesca a fotografare in maniera assolutamente lucida cornici di un Giappone che, come lui stesso ha affermato, ama, ma allo stesso non riesce a fare a meno di odiare per tutte quelle contraddizione che possiede. 

Questa poetica raggiunge il suo culmine nel 2008 con Love Exposure (Ai no Mukidashi,2008). Sono Sion firma quello che da molti è considerato il suo capolavoro, un’opera mastodontica di ben 4 ore, tenute in piedi da una messa in scena perfettamente equilibrata e stratificata, che brilla per anticonformismo e coraggio. La storia è talmente folle ed imprevedibile, che forse non è nemmeno indispensabile raccontarla. Basti pensare che il tutto comincia da Yu, il nostro protagonista, figlio di un prete cattolico. Yu è peccatore e pervertito voyeuristico per il semplice gusto di peccare; Sono utilizza il peccato cristiano come pretesto per discutere l’esigenza dell’individuo di scappare dalle situazioni prestabilite muovendosi anarchicamente, porta alla riflessione come questa necessità nasca nel bisogno d’attenzione e di amore di un figlio che ha perso la madre e cerca a ogni costo il perdono da parte di un padre da rinconquistare attraverso la sua nuova vita. Ma la trama non si ferma qui, entrano in gioco personaggi assurdi, situazioni altrettanto assurde; ancora una volta nel corso del film si passa da un genere all’altro: commedia, love story, kung fu, drammatico, sesso. Quest’ultimo rappresentato senza mai essere volgare, ma per raccontare un disagio nella sessualità giovanile; il regista prende i concetti di religione, famiglia, fanatismo e sessualità, rimescolandone i cardini e consegnando una visione audace e profonda. La voglia prorompente del regista di divertirsi con il mezzo cinematografico si dimostra nel suo modo di girare energico, scabro eppure estremamente raffinato (il film è girato in digitale ma il supporto quasi non si nota), con un montaggio serratissimo che accompagna per mano lo spettatore.

Love Exposure


Così facendo anche nelle opere successive il regista nipponico regala una personalissima visione della società giapponese del terzo millennio, spesso e volentieri in maniera iperbolica ed eccessiva, abbracciando rappresentazioni grottesche che mescolano dramma e ironia.

Da questo film in poi Sono inizia un percorso di impegno sociale, volto ad indagare un tormento contemporaneo in tutte le sue sfaccettature: Cold Fish (Tsumetai nettaigyo, 2010) e Guilty of Romance (Koi no tsumi, 2011), rappresentano un punto di svolta nella rappresentazione di questo malessere. Parliamo di due opere estreme (in particolar modo Cold Fish), per la freddezza e la violenza con cui Sono porta in scena tutta quell’estrema alienazione alla società, estremizzando la decadenza morale dei personaggi. Questa estremizzazione giunge al culmine con Himizu (2011), opera massimamente matura e coraggiosa, che rappresenta uno degli apici del cinema giapponese (e non solo) contemporaneo, vergognosamente mai uscito in Italia (se non quando è stata presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011, aggiudicandosi il premio M. Mastroianni per il protagonista come miglior attore emergente). Girato dopo il terremoto dell’11 marzo 2011 e il conseguente disastro di Fukushima, Sono porta in scena una nuova idea di cinema, firmando un’opera dal notevole impatto visivo e sonoro con diversi registri narrativi e registici volti ad indagare le conseguenze di quel terribile disastro che ha cambiato per sempre il volto del Giappone. Questa indagine proseguirà poi con The Land of Hope (Kibō no kuni,2012), una rilettura in chiave squisitamente classica, che richiama il cinema di Ozu Yasujiro, del disastro nucleare di Fukushima. 

Sono Sion (a sinistra) assieme a Fumi Nikaido e Shota Sometani, i due attori protagonisti in Himizu, alla Mostra del Cinema di Venezia

Esattamente come un Ferrari che viene spinta al massimo, Sono Sion decide di spremere ancora di più la potenza del mezzo cinematografico, portando lo spettatore a rimanere incollato allo schermo con film dinamici fino all’estremo: Why Don’t You Play in Hell (Jigoku de naze warui, 2013) e Tokyo Tribe (2014) possono essere considerati i due esponenti principali. Due opere folli, spassose e grottesche, che dimostrano un amore per il cinema infinito. La prima è un geniale mix di yakuza movie e commedia, la cui sceneggiatura praticamente inesistente, elementi assurdi di metacinema e la recitazione sembrano prendere in giro ogni possibile stereotipo dei due generi. Tokyo Tribe è una rivisitazione del musical moderno; uno yakuza movie musicale ambientato in una Tokyo distopica dove la messa in scena richiama fortemente i colori degli anime anni ’80 (a tratti sembra quasi di stare guardando un anime a tutti gli effetti).

Come già detto all’inizio dell’articolo, questa non può considerarsi una retrospettiva completa del regista nipponico, in quanto le opere saltate sono molte (soprattutto gli ultimi eccellenti lavori) e quelle prese in considerazione non sono nemmeno state trattate in maniera approfondita. Ma l’intento era quello di presentare, far conoscere e portare alla curiosità, la figura di un autore, o per meglio dire, un’artista che, stimatore anche della letteratura di Pasolini e Moravia, è riuscito a portare un cinema sovversivo e visionario; dissacrante e surrealista. Sono è stato capace di mostrare i lati più oscuri di una contemporaneità storica che provoca complessi problemi sociali negli individui, costringendoli a combattere con il proprio io (e dunque con il proprio percorso di vita) in un mondo che getta continuamente ogni persona nel caos e nell’individualismo. Attraverso un suo percorso coerente con la sua poetica autoriale, Sono Sion è stato capace (e lo sarà ancora) di affrontare temi delicati, attraverso un estro creativo ed intelligente, mostrandoli sempre con il suo occhio filtrato del suo cinema.