Pubblicato il 24/08/2021

Scritto da Michelangelo Morello

In un mondo dalle fattezze post-apocalittiche in cui la mano dell’uomo ha evidentemente sconvolto lo status quo della natura perseguendo le proprie volontà, gli ultimi superstiti vivono alla giornata, noncuranti di condurre una vita all’insegna del buon costume e della autoaffermazione individuale. Un ritorno allo stato primordiale, non civilizzato, a cui, nonostante tutto, l’essere umano non rinuncia, ma che è invece accettato, per propria natura, dal regno animale costretto a vivere in un mondo modellato coercitivamente, nel corso dei secoli, a misura d’uomo. 

Space dogs (2019), firmato dai registi Elsa Kremser e Levin Peter, mette in relazione l’uomo con la razza animale, adottando il punto di vista di alcuni cani randagi della periferia della città di Mosca. È proprio questa caratteristica che fa del film, presentato alla 72° edizione del Festival di Locarno, un’opera singolare e probabilmente unica nel suo genere: l’uomo, attraverso le tecniche dell’arte cinematografica, diventa cane, abbandona la sua volontà, diventa altro da sé e adotta il punto di vista dei protagonisti annullando la sua coscienza nell’atto di ripresa. L’opera, infatti, si srotola in lunghe e abbondanti riprese dei cani randagi fra le strade pressoché deserte della periferia, tentando di ottenere e restituire uno sguardo non giudicante rispetto ai loro comportamenti. Per raggiungere quest’effetto, gli autori hanno deciso di adottare uno stile di regia perfettamente coerente col tipo di risultato che era nei loro intenti: rispolverando la teoria baziniana, spalancando una finestra sul mondo in cui tutto succede indipendentemente dalla volontà artistica, cioè umana. 

L’intento dei due registi sembra quello di annullare il punto di vista umano, tentando di restituire una completa immedesimazione animale, ma è davvero possibile compiere un’azione di questo genere? All’interno della pellicola, la figura e la volontà dell’uomo sono inevitabilmente presenti, sia dal punto di vista artistico, perché l’arte è prerogativa della specie umana che sceglie cosa e come rappresentare; sia nello sguardo del pubblico, perché, nonostante gli sforzi da parte degli autori di restituire una prospettiva terza, esso possiede intelletto e una propria prospettiva socio-culturale e non può, dunque, esimersi dall’adottare adottare un proprio punto di vista. Infine, la figura e la volontà dell’uomo sono parte integrante della narrazione perché la pellicola si struttura fra un continuo accostamento di immagini del presente e di immagini d’archivio dell’Unione Sovietica in piena corsa allo spazio, in cui vengono mostrati gli esperimenti condotti sugli innocenti randagi sovietici sfruttati quali primi cosmonauti per soddisfare la fame di conoscenza umana. 

Lo sguardo degli autori della pellicola nei confronti dell’uomo esprime un giudizio chiaro, certamente negativo che lascia spazio ad una discussione ormai diventata classica: “il fine giustifica i mezzi?”. I registi Elsa Kremser e Levin Peter sembra decidano di schierarsi col mondo animale, e invitano a distaccarsi dalla supremazia delle scienze, cioè dell’uomo, per abbracciare uno stato di natura comunitario, fatto di cooperazione, difesa e aiuto del prossimo.