Tra Wajda, W.J.T. Mitchell e Agamben

Scritto da Redazione

Pubblicato il 25/06/2020

Una aspirante regista, per il suo lavoro di diploma, decide di dedicarsi ad un documentario storico, con materiale d’archivio e riprese inedite, sulla propria nazione attraverso la vita di un uomo, Mateusz Birkut, protagonista in una stagione di quella storia al punto da essere fatto statua per i suoi meriti come “campione del lavoro” – questo il titolo, così in linea con la retorica dei paesi che inseguivano i “radiosi futuri”. Da qui parte il film L’uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1977) di Andrzej Wajda, nel cui cinema la storia e l’epica del suo paese, la Polonia, sono sempre stati centrali. Il film è per noi utile per trattare di un argomento piuttosto à la page di questi giorni, le statue e il loro significato, quindi le proteste e gli atti di vandalismo e le rimozioni.

Jerzy Radziwiłowicz e Krystyna Janda, attori protagonisti del film

La statua, seppur connotata di elementi peculiari, condivide con l’immagine alcuni aspetti inerenti  la fenomenologia di chi a che fare con esse e la semantica.

Uno dei più autorevoli studiosi dell’immagine negli ultimi anni, W.J.T. Mitchell, vede l’immagine in maniera obliqua rispetto a quanti in un’immagine vedono netto e lampante il segno di un preciso significato e quindi dotate di un loro messaggio, di una forza. Dice Mitchell:

Senza dubbio le immagini [i.e. statue] non sono senza potere, ma potrebbero averne molto meno di quanto ne pensiamo. Il problema è rendere più complessa e raffinata la nostra valutazione del loro potere e il modo in cui esso opera. Questo è il motivo per cui ho spostato la questione da ciò che le immagini fanno a ciò che le immagini vogliono, dal potere al desiderio, dal modello di un potere dominante, cui bisogna opporsi, a un modello del subalterno che bisogna interrogare o (meglio) invitare a parlare. Se il potere delle immagini è come il potere del debole, questo è il motivo per cui il loro desiderio è proporzionalmente forte: per compensare la loro reale impotenza​.

Seguendo Mitchell si potrebbe quasi dare dell’immagine e delle statue la definizione di un segno privo di un significato stabile, o meglio prestabilito, in quanto questo viene fornito solo da chi la guarda e per sé. Una tale prospettiva apparirebbe un filo troppo relativista; si può meglio dire che l’immagine rimanda ad un quadro semantico, ma questo è dipendente, nella sua composizione, dal processo interpretativo dell’osservatore. Soprattutto, per Mitchell, è chi guarda l’immagine a darle una forza facendola “parlare”. L’immagine, la statua, è un simbolo suscettibile di mutare il proprio referente. Da qui la letterale salita e la caduta dai piedistalli.

Due volte nella polvere,

Due volte sull’altar.

Se le immagini sono bisognose, se necessitano di noi per aver voce, allora il sentimento, l’opinione, verso la statua è un’opinione su di sé, e in termini più ampi sulla storia che ha preceduto e involontariamente e più o meno inconsciamente, ha formato quella persona che osserva, dà il suo significato all’immagine-statua e – oggi particolarmente – giudica e lotta. Una lotta, per quanto detto, contro di sé, contro l’idea datale, quasi la statua si ponga come transfert, feticcio, che Agamben così spiega:

l’oggetto-feticcio è sì, infatti, qualcosa di concreto e perfino di tangibile; ma in quanto presenza di un’assenza, esso è, nello stesso tempo, immateriale e intangibile, perché rimanda continuamente al di là di se stesso verso qualcosa che non può mai realmente essere posseduto.

In questa sua duplice qualità di oggetto tangibile e intangibile, la statua-feticcio si rivela statua nel significato greco del suo termine, άγαλμα. “Questo termine – dice Kerényi – non sta a indicare presso i Greci una cosa solida e determinata, ma… la fonte perpetua di un evento, al quale si suppone che la divinità prenda parte non meno dell’uomo”. In un mondo in cui gli dei sono stati proclamati morti, e il cui termine ψυχή è passato da designare l’anima alla mente, non pare azzardato dire che la statua, άγαλμα, si fa fonte di un evento, un’epifania, in cui appare la mentalità dell’uomo che incontra quella statua. La statua è così al contempo oggetto materiale, e soggetto, incarnazione di quell’al di là altrimenti intangibile che è la nostra idea – con cui lo rendiamo nostro – su quell’oggetto. Di nuovo Agamben:

Davanti a queste statue è del tutto impossibile decidere se ci troviamo di fronte a “oggetti” o a “soggetti”, perché esse ci guardano da un luogo che precede la nostra distinzione soggetto/oggetto.

Questo è quanto avviene nel film di Wajda da cui si è partiti. Iniziando le riprese per il documentario, la regista cerca di catturare le immagini della statua del suo protagonista dai magazzini di un museo, dove è celata come fosse un elemento di scandalo. Infatti, vedremo, saranno differenti e spesso contraddittorie le opinioni su quell’uomo, Birkut.

La regista, riuscita ad entrare nei magazzini, cerca la statua che le interessa tra le varie opere stipate e accatastate. Ed è qui che nel film troviamo quel processo di soggettivazione dell’oggetto-statua tramite un processo mentale, mnestico, attivato dalla vista della statua e rovesciato su di essa. Il processo mnestico, nel film, è dato dal sonoro extradiegetico che va a sovrapporsi nelle soggettive della aspirante regista intenta a cerca la statua di suo interesse. Guardando le varie statue, ognuna evoca il suono del suo tempo, canti e inni della propria stagione, rumori della piazza che la innalzava a monumento.

Una volta trovata la statua di suo interesse, mettendo da parte l’esperto e un po’ retrogrado direttore della fotografia che chiedeva si usasse il cavalletto, inizia a filmare la statua. Percorre il corpo di quell’uomo di pietra dall’alto al basso, misurandone con l’occhio della cinepresa quanti più dettagli possibile; poi, a cavalcioni sulla statua supina, inizia ad indagarne il volto.

Cambio di fuoco per il primissimo piano, e poi via, come se non fosse capitato nulla. Invece qualcosa era successo, la nostra aspirante regista, tramite la statua filmata, iniziava un percorso di indagine e conoscenza della propria nazione attraverso i suoi simboli ora abbattuti. 

Una seconda scena del film è indice di come le immagini subiscano i ghiribizzi dell’opinione pubblica. In uno scarto per un cinegiornale, ecco il campione del popolo Birkut, nella sua gigantografia, viene deposto. Si cancella appunto la sua immagine, presto sostituita con una nuova, di un altro campione, come per ricordare che lo spazio dell’immaginario rifugge il vuoto quanto quello di natura. Al regista di quel cinegiornale, la sua prossima collega, gli chiede come mai quella gigantografia fosse stata tolta e sostituita. Lui, da uomo di mondo, risponde che: “può capitare, una volta li tolgono una volta li mettono…” 

In questa stoica osservazione sul come  si “mettono” e “tolgono” immagini o statue, appare forse la necessità di un maggior distacco dalla statua-oggetto, riflettendo come l’opinione che abbiamo su di essa sia un elemento datole da noi. Piuttosto, servirà lo sguardo attento e desideroso di conoscere della giovane regista, per noi che a volte mettiamo a volte togliamo statue. Può capitare…

L’effige di Birkut