Tampopo è l’espressione più alta di “fare l’amore con il sapore”, un classico film giapponese di Juzo Itami senza tempo che ci nutre di delizie comiche, fantasie gastronomiche e strani feticismi sul ramen. Un film a cui non riesco a smettere di pensare, seduttivo e vivido, con una protagonista buffa, goffa e di una purezza incredibile, rimasta vedova. Parliamo di Tampopo, il cui nome vuol dire “dente di leone”, un fiore che cresce anche nelle condizioni più ardue, proprio come lei che si ritrova a gestire un piccolo ristorante di ramen. Senza talenti particolari e costretta a servire persone poco raccomandabili, si trova in difficoltà enorme. 

Dal retrogusto un po’ spicy, questo film diventa una vera e propria satira di un classico “spaghetti Western”, figura emblematica è quella dell’eroe, Goro, che si presenta come un cavaliere solitario e girovago, a cavallo del suo camion. La sua missione diventa quella di insegnare a Tampopo a cucinare il miglior ramen e da qui partono una serie di rocambolesche situazioni comiche, che, nel corso del film, vedono coinvolti sempre più uomini, pronti ad aiutare la vedova a raggiungere un obiettivo onorevole. 

Ricco e dettagliato, questo è un viaggio gastronomico, siamo di fronte a una quasi noodleology, basti pensare alla scena iniziale di un anziano saggio che insegna a un giovane come mangiare i noodles, seguendo un rituale quasi sacro di passaggi ben delineati: spiega tutti gli ingredienti, in che ordine mangiarli, come annusare il ramen, come accarezzare la carne e come lasciare il brodo per ultimo, senza preoccuparsi delle labbra che si toccano umidamente e rumorosamente sorseggiano – una scena più forte del sesso. 

Nel frattempo un mosaico di storie circondano quella principale: la storia di un gangster di Yakuza e della sua amante; poi di una madre sul punto di morte che si alza dal letto solo per cucinare l’ultimo pasto alla sua famiglia che le sta al capezzale; poi un’anziana signora bizzarra che entra in un costoso supermercato e si diverte a schiacciare e deformare tutto quello che trova; successivamente vediamo un’elegante signora che tiene un corso sul bon ton degli spaghetti, insegnando alle sue alunne ad evitare il rischio di rumori disdicevoli, che in occidente non sarebbero mai accettati, ma viene subito contraddetta da un concerto di versi di risucchio, che partono proprio da un avventore occidentale e così via. Tutte situazioni comiche distorte dal consumo o dalla presenza del cibo, alcune più cariche di erotismo di altre, fino a toccare il picco del piacere in una scena in cui ritorna il gangster: lui e la sua amante si eccitano mentre si passano il tuorlo dell’uovo da una bocca all’altra senza mai toccarsi veramente, fino al culmine della potenza orgastica della donna che si lascia andare e rompe il tuorlo. 

L’uso erotico dell’uovo, che in Ecco l’Impero dei sensi (controverso film di Nagisa Ōshima del 1976) segna l’apoteosi tragica dell’incontro sessuale, scivola ambiguamente tra un atto deliberatamente osceno e l’alone comico del film nel suo insieme. Una dubbia sensazione che permane trasversalmente in tutta la pellicola.

Il cibo dunque diventa un sostituto quasi evidente del sesso e Tampopo ci offre un’allegorica esplorazione di questa pulsione istintiva attraverso ciò che è commestibile. Questi due mondi, apparentementi lontani, sono in collisione tra loro, ma entrambi sono piaceri intensi e appaganti e il cui legame lo vediamo sin dalla Bibbia e dal morso di Eva alla mela tentatrice ma in realtà anche in altre culture più antiche. Freud sarà uno dei primi a teorizzare la forte simbiosi tra l’atto di mangiare e l’atto sessuale e proprio lui afferma che queste due azioni non erano abbastanza per gli uomini, poiché si trattava di semplice istinto di sopravvivenza; per questo abbiamo inventato la gastronomia e l’erotismo, entrambi accomunati dall’importanza della bocca, lo strumento attraverso cui i piaceri si fondono. 

Questo è un film che, come un piatto di ramen caldo, scalda il cuore e non scade mai nella banalità, una vera chicca del cinema comico giapponese. 

Scritto da Amanda Milaqi