Scritto da Redazione

Pubblicato il 05/06/2020

Il Diavolo e la Pantera (The Panther and the Devil) si potrebbe facilmente ascrivere alla pletora di film poliziotteschi usciti negli anni ‘70, e senza neppure il rammarico di molti spettatori, critici o laici, poiché quasi rimasto in sordina fino ad oggi pur di non venire risucchiato dal gorgo dei suoi parenti cinematografici. Tuttavia, questo film uscito nel 1973 per la regia di Nicholas Richardson è qualcosa che inizia ad avvicinarsi all’opera di un autore maturo, o almeno – per evitare di far alzare troppi sopraccigli nei pochi lettori – di un regista conscio di poter dare un segno della propria mano sulla pellicola. Il film è certamente debitore nei confronti dei B-movies italici di quegli anni; si parla spesso di come il cinema italiano, un tempo, fosse maestro al mondo e venisse esportato ed imitato. Ma questo non avveniva solo per i nomi di primissimo livello, quali un Rossellini o un Fellini, bensì anche per il cinema di genere, e di genere persino spiccio in tanti casi. Sono molti gli stilemi sia narrativi sia inerenti gli aspetti visivi che avvicinano Il Diavolo e la Pantera ai suoi cugini dello stivale, ma sarebbe fin troppo accomodante limitarsi a sottolineare questo debito e le relative vicinanze senza dar attenzione a quanto invece è proprio dello stile di Richardson. Prima è meglio dare un assaggio della trama. La Pantera è il nome di una mafia di un quartiere di Boston; il diavolo è una donna di cui si invaghisce uno degli sgherri della banda della Pantera ben avviato per conquistare la vetta dell’associazione a delinquere. Ma, si sa, il diavolo sta nei dettagli o in questo caso il dettaglio sta nel diavolo, e la ragazza risulta essere la rovina delle possibilità di carriera del giovane criminale. Il traffico di stupefacenti, una partita di quelle grosse affidata direttamente alla supervisione del nostro Chris (interpretato dal caratterista Claude Bernard, il nome tradisce l’origine francese della famiglia), viene dirottato da una banda rivale. Il giovane, senza la commissione che gli spettava, si ritrova incapace di provvedere a dei debiti di gioco accumulati nelle serate libere dal lavoro; e la ragazza, l’avvenente Evelyn, metterà definitivamente nei guai Chris quando, per allontanare un altro rampollo, Harry, di lei invaghitosi, lo fa minacciare dal nostro Chris. Purtroppo per Chris, il giovane Harry risulta essere un investigatore della polizia di Boston, che insospettito sulle maniere dell’altro giovane inizierà ad interessarsi fino a scoprire la sua affiliazione alla Pantera. E risulterà essere anche un astuto corteggiatore, per nulla incline a mollare l’osso che aveva fiutato… Il tutto si concluderà con la battuta finale del diavolo: “tesoro, sono contenta che tu sia tornato a casa prima da lavoro”. Ma non vi sveleremo chi tra Chris ed Harry sia il fortunato compagno della diavolessa. Sarà bene guardare ora quei tratti tipici di Richardson che si diceva in apertura. In particolare gli è cara una certa “tecnica” visiva per enfatizzare i momenti più carichi d’emozione. Il gioco è semplice e spesso ripetuto: un volto ripreso da non troppa distanza, ancor più preferibilmente preso di tre quarti; uno o due secondi di inquadratura e poi a sfocare il viso, rendendolo opaco e indefinito come se lo spettatore avesse perso improvvisamente l’occhiale per la miopia. La tecnica ha una duplice motivazione, da una parte è una scelta visiva di semplice gusto del regista, sarebbe come chiedersi del perché un pittore preferisca una campitura rispetto ad un’altra – si può fare, ma qui si guarderà ad altro. Allo stesso tempo – il secondo motivo – è dovuto al fatto che Richardson, in tutta la sua carriera, e questa tecnica la riscontriamo fin dal secondo film Ispettore, siamo tutti con lei  (1964), ha potuto lavorare, causa i bassi fondi, soltanto con attori non certo tutti di prima schiatta. Così, quando serviva l’espressione che più legasse lo spettatore al sentimento, all’emozione, provata in quel momento dal personaggio del film, gli palesavano espressioni vacue e per nulla adeguate alla situazione che si doveva portare in scena. Ora non è il caso di aprire un dibattito sulla qualità di insegnamento delle scuole drammatiche, dell’Actor’s Studio, negli anni ‘60-’70, ma indubbiamente il tema esiste e porta le sue conseguenze soprattutto là dove non si ha a che fare con il gotha degli attori ma la loro parte mediana. Ecco, si diceva, che per ovviare alla mancata resa espressiva dell’attore il regista sopperisce con questa mossa di certo impressionista e non facilmente digeribile per lo spettatore avvezzo solo ad un cinema patinato. Altra caratteristica, questa volta narrativa, dato che Richardson è anche spesso sceneggiatore dei suoi film – sceneggiature non originali, cioè derivate da libri, ma questo non è certo da meno. Ecco, una sua caratteristica è l’inserire, sia per far proseguire la trama sia per riassumere per quanti magari s’erano distratti un attimo – e nei cinema di quegli anni la fruizione era ancor più scomposta di quella di oggi, le distrazioni, da quelle femminili a scendere, non erano poche – lettere e scritti poi letti dai suoi personaggi. Una cosa che pone il nostro regista in prossimità di un autore che altrimenti parrebbe lontanissimo se non antitetico, ovvero Robert Bresson, celebre per i lunghi diari o lettere inseriti nei suoi film. Nel film in questione troviamo più volte Chris che legge lettere della sua amata o pizzini, e lo stesso capita alla diavolessa che leggerà quella che è la lettera forse più toccante di tutta la cinematografia di Richardson, ma non è il caso di anticiparla, preme soltanto richiamare all’attenzione lo spettatore che vedrà la scena su come questa sia costruita con una particolare cura dell’alternarsi tra i piani sulla donna e i campi dedicati alla città, in un montaggio che oseremmo definire lirico: la città prende le forme del sentimento della donna, i sospiri sono gli sbuffi di vapore della metropolitana, le vertigini dei ricordi passati le tilt a salire le pareti di infiniti grattacieli, i passaggi angosciosi il traffico che si compone e sfalda nei labirinti cittadini. Ed è forse questa delicatezza di cui è capace Richardson in alcune scene dei suoi film, tutti film che certo non si rivolgono a un pubblico “contemplativo” o prettamente femminile, a renderlo un regista capace di una sua autorialità. Qualcosa, in questo, lo avvicina un po’ a Lucio Fulci, a cui verrà riconosciuta decenni dopo la capacità evocativa di alcune delle sue scene anche particolarmente sanguinolente. In Richardson, però, le cose restano separate: cioè quando si tratta di scene d’azione, di sparatorie, rapine etc., rimane nei consueti canoni del genere, mentre in altre scene, che si potrebbero dire di passaggio o di caratterizzazione dei personaggi, si concede questo suo particolare secondo registro. Sicché, il film Il Diavolo e la Pantera risulta essere un piccolo compromesso tra quei due mondi che – soprattutto allora – appaiono e forse sono inconciliabili: il cinema di genere e quello d’autore. Nicholas Richardson appare come un regista a metà, pesce piccolo e incapace di prendere posto nell’acquario del cinema maggiore; mentre il suo cinema è già in quegli anni superato nei suoi lati migliori, apparendo come vecchio, dall’allora fiorente New Hollywood nella West coast e dalla New American Cinema Groupnella East coast che domineranno gli anni di allora.