Scritto da Redazione

Pubblicato il 09/06/2020

Where

Is

The Love?

“There is only one race, the human race”

Questo recitano molti cartelli che oggi si fanno largo sul suolo americano, lacerato dalle proteste: solo una razza, la razza umana. E allora viene spontaneo chiedersi dove sia tutta questa umanità in momenti in cui le persone vengono discriminate, maltrattate, arrestate, private della possibilità di essere felici e a volte anche privati della possibilità stessa di vivere, a causa del colore della loro pelle, del loro sesso, delle loro credenze religiose e a causa del modo in cui decidono di amare ed essere amati.

Fin da quando siamo piccoli ci ricordano che ci differenziamo dagli animali perché siamo esseri razionali, perché abbiamo il libero arbitrio e il pollice opponibile. Per fortuna, tra i banchi di scuola c’è chi, fin da subito, ci ricorda che siamo uomini perché siamo capaci di umanità, di amore, di conoscenza e di empatia, capaci di controllare le nostre pulsioni e non vedere l’altro come preda, come inferiore, come parte di un’inesorabile catena alimentare.

Siamo uomini perché siamo capaci di civiltà. Questo è quello che non ci rende bestie.

La vera minaccia non sono i pigmenti delle carnagioni, non sono i capezzoli delle donne, non sono i baci scambiati per strada tra la gente che si ama, ma è la stigmatizzazione di questi gesti. Dovremmo avere paura dell’egoismo, dell’invidia, dell’ottusità, della brama che l’uomo ha di essere superiore. Denigrare gli altri non ci rende migliori, impedire agli altri di realizzare i loro sogni non fa avverare i nostri, costruire sulle spalle degli altri non ci rende superiori, non esprimere mai la nostra opinione non ci rende pacifisti.

La cosa più importante che dobbiamo fare per cambiare questo mondo, che sembra ormai immutabile, è educarci ed educare.

E, nonostante l’opinione popolare sia “la televisione ti brucerà il cervello”, la capacità di aprire gli occhi per crearci una visione del mondo noi la dobbiamo al cinema, e quindi, non capaci di esprimere la nostra opinione in maniera corretta e convincente, preferiamo lasciare la parola a quella finzione che, più di tutte, è capace di raccontare la realtà.

Investite qualche ora della vostra vita in queste esperienze, ascoltate queste storie, lasciatevi appassionare, incuriosire e chissà magari cambiare e allora un giorno, forse, saremo capaci di raccontare la nostra storia come si racconta una vittoria e non una rivincita.

Sii gentile.

Sii umile.

Sii umano.

12 ANNI SCHIAVO
di Steve McQueen (2013)
Durata 134 minuti / NETFLIX

“La legge dice che avete il diritto
di possedere un negro, ma con
tutto il rispetto per la legge… è
una menzogna. Una cosa è giusta
solo perché consentita dalla
legge? E se passasse una legge
che vi portasse via la libertà e
facesse di voi uno schiavo?”

Oscar come miglior film 2014 al capolavoro di Steve McQueen
che racconta la vera storia di Solomon Northup, padre di
famiglia e famoso violinista afroamericano, nato e cresciuto
come uomo libero ma rapito e venduto come schiavo
nell’America del Sud durante gli anni della prima guerra di
secessione. Un film che apparentemente potrebbe trattare
esclusivamente di razzismo, ma che in realtà è molto di più. È
una cruda rappresentazione di cosa significhi guardare crollare
la propria vita per un pregiudizio, di come la superiorità degli
uomini possa portarli in realtà ad essere gli esseri più assurdi su
questa Terra.
Non si può nascondere che questo sia un film difficile, violento
e commuovente e a tratti faticoso da vedere per chi tende ad
immedesimarsi nei personaggi, ma è proprio che sta il bello, nel
chiedersi: Solomon è davvero cosi distante da noi?

BLACKKKLANSMAN
di Spike Lee (2018)
Durata 128 minuti / AMAZON PRIME VIDEO

“Non c’è mai stato un poliziotto
nero qui. Tu potresti essere l’uomo
che crea un’apertura in questa
città.”

Ron Stallworth (John David Washington) è il primo
afroamericano a diventare poliziotto a Colorado Spring, dove
inizialmente sarà assegnato all’archivio, trovandosi ogni giorno
ad affrontare il razzismo dei colleghi, che lo infastidiscono
chiedendo spesso documentazioni riguardo le scimmie.
Successivamente cambierà sezione, riuscendo ad entrare come
agente sotto copertura in un gruppo di Black Panther della
cittadina. Prenderà in seguito la difficile decisione di fingersi un
bianco razzista schierato con lo stesso Ku Klux Klan, grazie
all’aiuto del partner ebreo Flip Zimmerman (Adam Driver).
Spike Lee, che negli scorsi giorni ha realizzato un crudissimo
cortometraggio a sostegno delle proteste Black Lives Matter,
riesce qui in maniera molto lucida a creare un affresco delle
evidenti contraddizioni della società americana, criticando
fortemente il razzismo del mondo contemporaneo (mostrando,
dopo un finale non particolarmente rassicurante, delle riprese
dei disordini del 2017 a Charlottesville, quando una giovane
donna venne investita e uccisa da un suprematista bianco che si
era lanciato violentemente contro una manifestazione
antirazzista).

DETROIT
di Kathryn Bigelow (2017)
Durata 143 minuti / RAI PLAY

“Devi sopravvivere alla notte.”

Detroit. Luglio 1967. Le comunità nere si rivoltano contro la
polizia bianca: il risultato sarà una settimana intensa di
guerriglia urbana che metterà a ferro e fuoco le strade della
città americana. Il culmine si raggiunge quando una sera, un
gruppo di poliziotti, a seguito di una chiamata, fa irruzione
all’interno di un motel nella periferia della città. Durante
l’assalto numerosi ragazzi di colore vengono uccisi senza un
apparente motivo.
Nonostante personalmente non abbia mai apprezzato il suo
lavoro, l’ultima fatica della regista premio Oscar Kathryn
Bigelow
è un film necessariamente violento e doloroso, con
relativi pesi e misure sul valore della vita umana, ma è proprio
questa ambiguità che regala un’opera matura e dal forte
impatto sia emozionale che intellettuale. La messa in scena
risulta volontariamente shockante ma necessaria, per restituire
al meglio il marciume raffinato di una vicenda che ancora tiene
banco tra media e lotte razziali, mostrandosi come un ostacolo
che sembra ostruire ancora oggi, come cinquant’anni fa, la
strada verso l’uguaglianza.

THE HELP
di Tate Taylor (2012)
Durata 137 minuti

“Nessuno mi aveva mai chiesto cosa
provavo ad essere me stessa.
Quando ho detto la verità mi sono
sentita libera.”

The Help, ispirato al romanzo omonimo di Kathryn Stockett, è
un film corale al femminile che si presenta come il perfetto
connubio tra la lotta contro il razzismo e l’emancipazione
femminile negli Usa degli anni Sessanta. Il film presenta un cast
stellare tutto rosa; la protagonista del film è la determinata e
audace Skeeter, neolaureata e aspirante giornalista, interpretata
dalla talentuosa Emma Stone, che decide di scrivere un libro
che racconti della vita dei bianchi narrata dal punto di vista
delle cameriere di colore. All’inizio trova resistenza da parte
delle donne afroamericane, ma poi, grazie all’incontro con la
cameriera Aibileen, interpretata da Viola Davis, il ghiaccio si
rompe e sempre più donne vanno a raccontare le loro storie di
fatica e sofferenza. Tra queste donne c’è Minny, un personaggio
forte e tenace che viene interpretato da una magnifica Octavia
Spenser che grazie a questo ruolo vince l’Oscar come migliore
attrice non protagonista. La grande maestria nella perfetta
ricostruzione storica delle scene e dei costumi è riuscita a far
emergere il tragico spaccato di una società razzista e
discriminante nei confronti di chi è diverso e si distacca dalle
convenzioni. Il film, con le dolci sfumature dei toni leggeri
della commedia, riesce a trattare temi delicati, suscita
riflessioni sul passato e sul presente, andando a toccare nel
profondo l’animo degli spettatori, i quali, una volta terminata la
visione, si domandano se le cose sono veramente cambiate.

WHEN THEY SEE US
di Ava Duvernay (2019)
Durata 4 ore e 56 minuti/ NETFLIX (miniserie)

“Una delle visioni dipingeva una
città in rovine, violata, stuprata dalle
classi inferiori. La visione opposta,
condivisa da chi aveva visto
nell’arresto degli imputati una
perfetta rappresentazione della loro
stessa vittimizzazione, era quella di
una città in cui gli indifesi erano
stati sistematicamente rovinati,
violati, stuprati dai potenti“.

La mini-serie di Ava Duvernay (già regista di Selma- La strada per la
libertà
e del documentario il XIII emendamento) racconta la storia
di un caso giudiziario molto noto negli Stati Uniti. Il caso in
questione è quello dei “Central Park Five” che riguardò
l’aggressione e lo stupro di una jogger di 28 anni avvenuto a Central
Park il 19 aprile 1988. La donna, in seguito all’aggressione, rimase in
coma per 12 giorni e subì danni motori e cerebrali permanenti.
Furono condannati ingiustamente (nel 2002 il vero colpevole
confessò) dell’aggressione cinque ragazzi tra i 14 e i 16 anni, quattro
dei quali afroamericani e uno di origine ispanica, senza prove certe e
dopo interrogatori avvenuti senza la presenza né di genitori né di
avvocati. I ragazzi ricevettero condanne da 6 a 13 anni di carcere,
mentre l’unico dei cinque che all’epoca dei fatti aveva 16 anni fu
condannato a 13 anni di carcere. Le quattro puntate di When they
see us ci mostrano le storie dei ragazzi condannati, analizzando i
giorni degli interrogatori e del processo, seguiti dagli anni di
reclusione e dal racconto della loro “nuova vita” all’uscita dal
carcere. Ava Duvernay riesce a trasmettere tutto il dolore, il senso
di impotenza e la rabbia che i cinque giovanissimi protagonisti
provano non solo nei confronti delle forze dell’ordine ma anche nei
confronti dei media americani. Davanti a questo sincero racconto di
cinque vite rovinate a causa dei pregiudizi e della fretta di risolvere
un caso utilizzando un capro espiatorio, non si non provare un
profondo senso di frustrazione. Cast giovanissimo ed eccezionale, in
grado di rendere alla perfezione la vulnerabilità dei protagonisti di
fronte all’ingiustizia subita.

DEAR WHITE PEOPLE
di Justin Simien (2017-in corso)
30 episodi/ NETFLIX (serie)

“Quando ci deridete, oppure ci
umiliate, rafforzate un sistema già
esistente… perché quando un
poliziotto punta il suo fucile contro
un uomo di colore, non vede mai un
essere umano, ma una caricatura o
un criminale. Un negro, un negro,
un negro! Perciò no, non avete il
diritto di indossare dei costumi di
Halloween con appiccate sopra le
nostre facce e chiamarla “ironia” o
“ignoranza”. Non potete più!”

Basata sull’omonimo film del 2014, Dear White People
analizza la tematica del razzismo all’interno dei college
americani. Il titolo fa riferimento al Podcast che la
protagonista della serie registra e in cui attacca apertamente i
comportamenti razzisti che avvengono all’interno del college,
dove la comunità afroamericana è in minoranza. Analizzando
tematiche come la Black Face, la violenza da parte delle forze
dell’ordine e l’odio sui social media, Dear White People ci
mostra una panoramica della vita reale nei college americani
spesso nascosta o edulcorata nelle rappresentazioni più
popolari.

MARE CHIUSO
di Stefano Liberti e Andrea Segre (2012)
Durata 60 minuti

“Non si è mai potuto sapere ciò che
realmente succedeva ai migranti durante
i respingimenti, perché nessun
giornalista era ammesso sulle navi e
perché tutti i testimoni sono poi stati
destinati alla detenzione in Libia. Nel
marzo 2011 con lo scoppio della guerra
in Libia, tutto è cambiato. Migliaia di
migranti africani sono scappati e tra
questi anche profughi etiopi, eritrei e
somali che erano stati precedentemente
vittime dei respingimenti italiani e che si
sono rifugiati nel campo UNHCR di
Shousha in Tunisia, dove i due registi li
hanno incontrati.”

Ho scelto il documentario di Liberti e Segre perché ci ricorda
che #BlackLivesMatter non solo negli Stati Uniti, ma anche
qui in Italia, aspetto che non possiamo ipocritamente
ignorare in questi giorni di proteste. Il film porta alla luce le
violenze commesse dallo Stato italiano sugli oltre duemila
migranti arrivati sulle coste italiane tra il 2009 e il 2010, per le
quali il nostro Paese è stato condannato dalla Corte Europea
per i Diritti Umani. Richiedenti asilo in fuga dalla guerra,
sistematicamente intercettati nelle acque del Mediterraneo e
respinti in Libia dalla Marina e dalla Polizia italiana, in un
territorio in cui venivano privati di tutti i diritti e in cui la
polizia esercitava abusi e violenze. Nel documentario sono i
migranti stessi a raccontare cosa vuol dire essere respinti in
racconti di profondo dolore, tenacia e dignità.

FUOCOAMMARE
di Gianfranco Rosi (2016)
Durata 106 minuti

L’ultimo lavoro di Gianfranco Rosi
(premiato con Orso d’oro al Festival di Berlino e selezionato agli Oscar 2017)
racconta due realtà principali: quella
di chi è nato e vive sull’isola di Lampedusa, soprattutto pescatori,
e quella dei migranti che ci arrivano dal Nordafrica
attraversando il mare. Tra i protagonisti del film
ci sono il ragazzino Samuele, di cui Rosi racconta
le giornate tra scuola, pesca e famiglia, e il dottor Pietro Bartolo,
il medico di Lampedusa che negli ultimi anni si è trovato
ad affrontare in prima persona
tutti i problemi sanitari – e non solo – che riguardano
i migranti che arrivano sull’isola, dalle gravidanze alle numerose morti. 
Così come Mare Chiuso, è stato scelto
un altro film più circoscritto al nostro territorio nazionale,
per ricordarci che il movimento #BLM,
esiste e vive in tutta la comunità internazionale.