Al posto di cavare un coniglio dal cappello, questo mese, dal cappello, è stato estratto un tema che mi ha messo non poco in difficoltà: luci. In realtà, l’effetto che questo ha avuto su di me è stato bene o male lo stesso: stupore. Che scrivo su “luci”?

Dopo lunghe riflessioni, alla fine, ho scelto Titane. 

Nel lavoro di Julia Ducournau la fotografia, soprattutto perché tetra, è intrecciata alla narrazione e agli ideali del film. Le luci, in questo senso, giocano un ruolo essenziale, il che è curioso; non sempre succede.

Per capire perché, va detto innanzitutto che Titane è un film che s’inserisce tra il postumano e il pangender. 

Alexia è una ballerina che si esibisce in un salone automobilistico, da piccina ha subìto un incidente d’auto a seguito del quale le è stata inserita una placca di titanio nel cranio. Viene ingaggiata in un motor-show per danzare seminuda e, non si sa bene perché, è una celebrità nell’ambiente. Alexia prova un’attrazione quasi ossessiva nei confronti delle auto, finché finisce per rimanere incinta proprio di una Cadillac. È una molestia, poi, che scatena tutta un’escalation di violenza, con una serie di omicidi che la costringono a fuggire fino a quando, modificati i propri connotati e sempre più simile a un uomo, viene accolta da Vincent, un pompiere semi-delirante che la scambia (in realtà consapevolmente?) per Adrien, il figlio scomparso anni prima.

Agathe Rousselle in una scena del film

Per quanto parzialmente horror e sconvolgente, è un film sulla ricerca di una propria umanità: quella di Alexia – ma anche di Adrien -, così come di Vincent. Un’umanità che non sembra interessata a costrutti sociali come quelli del gender, o del considerare figlia o figlio solo chi lo risulta biologicamente. Un’umanità che abbraccia anche chi umano non sembra perché, alla fine, che importanza ha? 

Ecco che le luci diventano il linguaggio più facile e immediato con cui Ducournau può argomentare queste prese di posizione. 

Vincent, capo di una squadra di pompieri, altrettanto ripugnante quanto tenero, si gonfia di steroidi come un pollo e prende parte ai riti di gran mascolinità dove il corpo dei vigili danza assieme. Il tutto è avvolto da una luce rosa, molto sensuale, che sembra voler demolire i preconcetti di genere che riguardano la mascolinità stereotipata dei pompieri. 

Allo stesso modo, all’inizio del film, sia nei momenti dove Alexia è prima oggetto di sguardo maschile – quelli dove il suo corpo, lucido e truccato, è equiparato a quello delle auto, mentre sopra di esse danza – e sia nelle occasioni in cui diventa soggetto attivo – quando si sottrae dagli sguardi e reclama il possesso del proprio corpo, guardando dritto negli occhi gli spettatori –, Alexia si muove in uno spazio freddo, blu, quasi organico e sensoriale. 

L’idea è quella di ribaltare gli stereotipi di genere attraverso un rovesciamento del rosa/blu solitamente associati ad essi, ma soprattutto di superarli e di optare per una percezione più aptica.  

Ed è proprio quest’estetica (aptica), ottenuta attraverso un contrasto dei colori tale da sfiorare lo stile da cartoon, che Ducournau utilizza per portare le spettatrici e gli spettatori al di là di ciò che conoscono del genere o dell’uomo (inteso come umanità), rafforzando l’idea che non serva affidarsi a norme socio culturali per conoscere l’altra persona e creatura. 

Titane, insomma, non è solo un film su “una donna che scopa con un’auto e ne rimane incinta”, e sono le stesse luci della ribalta, sotto le quali il film si svela, a dircelo. 

Scritto da Silvia Lo Castro