Scritto da Redazione

Pubblicato il 17/06/2020

Werner Herzog

Un uomo è disteso sulla battigia, il sole di un’alba incipiente balugina all’orizzonte. L’uomo è assopito, le onde ritmicamente coprono e poi svelano le sue gambe. Seppur inerte si percepisce come non sia morto e che tra gli abiti strappati sia ancora presente il vigore di un uomo, un marinaio; la pelle: calda e arrossata. Questa è all’incirca la traduzione, un poco parafrasata, delle prime righe della sceneggiatura del film. Sembra, in questa maniera, che il film riprenda dove ha lasciato il suo protagonista la sera precedente: accanto a una barca, sulla battigia, stremato nella sabbia dopo aver fallito ogni tentativo di prendere il largo. Là era l’imbrunire, ora è mattina. Il protagonista pare il medesimo, lo è l’attore per cui è stata pensata la sceneggiatura. Sceneggiatura che non segue il classico schema con la divisione tra azione e dialoghi, ma assomiglia più a un racconto; un modo di scrivere cinema che già si conosce. 

Ma è meglio ora definire di che cosa si sta parlando. Il regista, l’autore della sceneggiatura, è niente meno che Werner Herzog, l’attore che avrebbe dovuto interpretare quell’uomo ancora mezzo zuppo è il suo amato-odiato Klaus Kinski, il film è quello che non verrà mai girato, e di cui s’è da poco avuto la possibilità di leggere alcuni stralci della sceneggiatura, che sarebbe dovuto essere il Robinson Crusoe secondo Herzog. Il film, o meglio quanto ne è stato scritto, nasce alla fine degli anni ‘80, probabilmente in contemporanea con Cobra Verde (1987), o durante la lavorazione di questo; ed è proprio di Cobra Verde che questo inizio pare essere un secondo tempo. La pellicola non sarà mai girata, i rapporti tra il cineasta e il suo attore più rappresentativo avevano ormai raggiunto il nadir: irrecuperabile la relazione tra i due, e per nulla possibile il vederli di nuovo al lavoro assieme per personalità che difficilmente trovano possibile svincolare il lato professionale da quello biografico. E che, anzi, proprio da questa compenetrazione tra convinzioni vita e pellicola hanno raggiunto quanto gli viene riconosciuto per importanza nella loro arte.

Con Robinson, come co-protagonista o forse più, ci sarebbe stata l’altra attrice più presente nel cinema del di Herzog, la natura. Quella insensibile, leopardianamente matrigna, natura che da sempre, e continua anche nelle opere più recenti, è ri-presa, guardata e studiata dal cineasta che mai se ne lascia ammaliare dal suo sguardo di gorgone, e pur sempre la rende nella sua immensa forza e magnificenza. Una magnificenza a cui ogni uomo può soltanto cedere l’onore delle armi, che mai, per quanto persino amata, ti tratterà da sua pari. Visamente, questa differenza incolmabile tra l’uomo e la natura, Herzog la dipana solitamente tramite una delle inquadrature più classiche da che è il cinema: il campo lungo. Tramite il campo lungo, o il lunghissimo, in cui il vuoto o al limite la sagoma depersonalizzata di un uomo vi sono presenti, Herzog cerca di riportare sul grande schermo non delle cartoline – come da lui stesso detto – bensì il terrore per quello che sarà di noi davanti a questo immenso, la paura di fronte all’incommensurabile dell’uomo che tutto vorrebbe misurare gestire e magari sfruttare – si veda Dove sognano le formiche verdi (1984) – e invece può soltanto, nonostante gli sforzi, sottomettersi. 

Per la trama, il Robinson Crusoe, non differisce particolarmente dal romanzo di cui è epigono: seguiamo la spaesamento, il tentativo di costruirsi prima una sopravvivenza e poi un quotidiano; certo il tutto sarebbe stato reso come possiamo purtroppo solo immaginare dal talento strabordante di Kinski. Immaginiamo, purtroppo soltanto, il riflesso del mare sconfinato nel suo sguardo profondo quasi siderali spazi e ceruleo; immaginiamo come, con che foga, avrebbe ammaestrato la piccola colonia di galline presente nell’isola, lo immaginiamo gestirle dispoticamente quasi fosse un re di un regno solo suo e non per questo minore di qualsiasi altro… Ovviamente ci sarebbe stato l’incontro con Venerdì e la mattanza dei suoi carcerieri, ma non vi è traccia dei familiari di Venerdì che quindi sarà il solo compagno del naufrago. Descritto di carnagione scura più della pece, e manchevole dell’avambraccio destro, s’asservisce senza alcuna rimostranza al suo Robinson-Klaus, e non lascia intravedere alcun patimento per i modi affatto rudi e gli insulti smaccatamente razzisti del suo signore -e anche qui cresce il rammarico per non aver visto l’opera realizzata… 

Tra l’altro, se il Robinson classico scrive un diario e cresce nella fede, quanto pensato nella sceneggiatura è quasi una commistione fra le due. Ovvero, Robinson tiene sì un diario in cui riporta le sue giornate, ma man che il tempo passa il suo delirio cresce e inizia a raccontare di sé secondo gli stilemi del racconto mitico o, meglio ancora, di quello biblico, in un crescendo che porterà – e il pensiero è certamente ad Aguirre (1972) e il suo di diario – a vedersi come figura messianica, l’unto destinato a essere “più splendente del sole a mezzogiorno”.

Lo scisma più significativo tra l’opera di Defoe e la versione di Herzog s’ha però nel finale. Come si sa, Robinson nel finale del libro trova il modo di salpare dall’isola prendendo possesso di una nave giunta fino a lui. Nel film di Herzog, la nave ormeggia al largo, Kinski la vede e la raggiunge. Invece di salpare con essa, assieme a un Venerdì che verrà sacrificato dal suo stesso padrone, decide di darle fuoco e distruggerla. E il finale, l’ultima scena scritta, è la descrizione di Kinski che tornato a riva guarda, come solo lui potrebbe nella sua follia, quella nave incendiata, avviluppata da scoppi e vampe, e con essa la sua possibilità di tornare alla civiltà. Questa scelta, opposta e speculare rispetto al tentativo di fuga finale in Cobra Verde, tanto radicale quanto folle, è classica del personaggio idealtipico di Herzog. Questo personaggio, alle cui svariate maschere è dedicata gran parte della ricerca cinematografica di Herzog, è gianico: da una parte folle, dall’altra idealista. Idealista è il genio dell’informatica Ted Nelson a cui Herzog dedica un capitolo nel documentario Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi (2016); folle è il protagonista di My Son, My Son, What Have Ye Done (2009). A volte, molto spesso, i due aspetti sono compresenti.
 La scelta finale di Kinski è perciò l’atto di un folle che preferisce dissociarsi totalmente da una società che non non potrà mai soddisfarlo, essendo ormai re e divinità, e che non ha più nulla di appetibile per lui. Come per il protagonista di Segni di vita (1968), arroccato nella sua fortezza militare – materiale e allegorica -, Robinson dalla sua isola-fortino decide di muovere guerra, tramite una vita totalmente affrancata dalle logiche mondane, al resto della società rendendosi ai nostri occhi folle, ma almeno differente e non complice di una asfissiante società che fin a quel giorno, quello del suo naufragio, non gli aveva lasciato libertà alcuna se non una fittizia. Il Robinson di Herzog, è forse il triste monito per chi decide di smarcarsi rispetto all’omologazione della società per via dell’adesione ad ideali inconciliabili nel mondo dominato da altre logiche, ovvero che per lui, il nostro idealista, non c’è altra possibilità di risultare pazzo, folle – perché, forse, effettivamente, lo è.