Cosa fare con questo caldo asfissiante, con la sua umidità che ci si appiccica addosso togliendoci ogni tipo di energia, per rendere produttivo lo scorrere del tempo? Oltre al ricordarvi di rimanere idratati e di assumere tutti i sali minerali di cui avete bisogno, vi consiglio di guardare l’opera di cui ho deciso di parlarvi quest’oggi. Three extremes… è, come rimarca il titolo, un film collettivo composto da tre diverse pellicole, dirette da tre registi asiatici che di usuale non hanno mai realizzato nulla. Il termine estremo rimarca la crudezza che impregna ciascun mediometraggio, una crudezza che non è solo visiva, ma che viene esasperata dalle trame, le cui storie sono arricchite da contorni scabrosi e da una particolare attenzione ai dettagli più rivoltanti. Musica e montaggio svolgono un ruolo cruciale per l’accrescimento della tensione, così come i suoni legati a immagini ripugnanti, il cui volume risulta più volte insopportabile. 

Questo avviene soprattutto nel primo caso, quello dei Dumplings di Fruit Chan, regista hongkonghese noto per le sue tematiche scottanti. Li, ossessionata dalla giovinezza, entra in contatto con una donna che si fa chiamare Zia Mei. Fin dal primo incontro tra le due la conversazione prende una piega inquietante e, partendo dalle riflessioni sull’età e su quanto Mei sia molto più vecchia di quello che sembra, si passa alla preparazione di particolari ravioli che, se ingeriti con gusto, farebbero ringiovanire chiunque li assaggi. L’elemento raccapricciante del film sta proprio nella composizione dei dumplings cinesi, di cui seguiamo la ricetta passaggio per passaggio, accompagnati dalla voce di Mei. La donna rimarca come l’impasto debba essere di una certa forma e morbidezza, il matterello ricoperto di farina, il ripieno sminuzzato per bene e perfettamente sigillato dalla pasta, da cui non deve fuoriuscire in alcun modo. Mei canta addirittura una canzone alla signora Li per tranquillizzarla mentre, con espressione disgustata, accompagna i ravioli alla bocca. Il suono della masticazione risuona fastidiosamente amplificato dal silenzio circostante. Seguiti dalle smorfie di Li e dai plurimi conati di vomito che sembra avere, veniamo riaccompagnati in cucina, dove Mei sta sminuzzando qualcosa di rossastro e viscido che, con non poca nausea, apprendiamo essere dei feti umani. Il famoso ripieno di zia Mei, avvolto in un impasto quasi trasparente, viene fatto bollire in una pentola piena d’acqua che, inevitabilmente, rimanda al liquido amniotico. La macabra allegoria della maternità, dell’ossessione per la giovinezza, si tramuta in un racconto agghiacciante, quello della madre che finirà per mangiare il proprio figlio. La lingua che Li si passa sulle labbra nell’ultima scena, bislunga e rivoltante, e lo sguardo folle e colmo di soddisfazione che le deforma il viso, rompono la quarta parete, rendendo lo spettatore complice di queste atrocità.

Con Cut Park Chan-wook rimane fedele al tema della vendetta, a lui particolarmente caro negli anni in cui già erano stati distribuiti i primi due capitoli dell’omonima trilogia. Ryu, un regista di successo, torna verso casa dopo aver lavorato sul set del suo nuovo film, che racconta la storia di una vampira psicopatica intenta a cibarsi di un essere umano. Una volta rientrato si rende conto di non essere da solo, ma non sarà la compagna ad aspettarlo. Viene infatti stordito e legato da una delle comparse dei suoi film, un uomo di cui non ricorda nome né volto. L’intruso minaccia di tagliare le dita della moglie pianista ogni cinque minuti, a meno che Ryu non strangoli una bambina che siede, legata e imbavagliata, sul divano. La violenza, come nel caso di Dumplings, è estrema, ma viene qui rappresentata in modo più cinico e distaccato. 

Il fatto che l’interno della casa di Ryu, dove si svolge l’azione, sia costruito come un gigantesco set cinematografico, e di fatto imiti il set precedente dell’ultimo film a cui stava lavorando prima di rientrare in casa, richiama la nostra attenzione sulla meta-testualità del discorso cinematografico. La messa in scena della sofferenza femminile, in cui la moglie è legata al suo pianoforte con fili di ferro che pendono dal soffitto, è una fantasia sadomasochista che sarebbe altrettanto adatta a un film rosa giapponese. Le crepe nella famiglia borghese vengono gradualmente rivelate quando le dita della moglie fungono da merce di scambio tra il regista e l’assalitore. Tuttavia, il vero obiettivo di Park Chan-wook è la classe, piuttosto che la famiglia, come dimostra il fatto che il motivo per cui Ryu viene preso di mira è perché ritenuto troppo gentile nei confronti delle persone che lo circondano. La vera colpa di Ryu è quella di essere nato in una classe privilegiata e di non aver mai dovuto lottare o sforzarsi per ottenere quello che voleva. I risultati di questa disparità diventano chiari nel momento in cui, nel tentativo di dimostrare che quando le persone sono disperate sono disposte a tutto, il fanatico avvia la trasformazione del regista da eroe, a mostro.

Con Box, di Takashi Miike, la definizione di mostruosità diventa più sottile. Ci viene offerta una visione surreale, incentrata sulla figura di due gemelle, forse la forma più inquietante di doppelgänger, uno dei più frequenti elementi orrorifici nel mondo cinematografico. La doppiezza dell’io permette di esprimere le ansie per la morte e la perdita di sé, che si manifesta quando il soggetto incontra il suo doppio identico. Kyoko è un’autrice perseguitata dal suo passato che soffre di flashback traumatici di una vita precedente, in cui viveva in un circo itinerante dove si esibiva, con la gemella Shoko, come contorsionista nel numero di magia del padre Higata.

Il terribile incidente che viene ricostruito scena dopo scena, provocato dalla gelosia di Kyoko nei confronti della relazione incestuosa tra Higata e Shoko, fa scaturire nella protagonista un profondo senso di colpa, da cui non riesce a guarire in alcun modo. Shoko continua a perseguitare Kyoko nel presente, inserendosi nell’incubo che la tormenta ogni notte. Quello a cui assistiamo per tutti i quaranta minuti di durata è, però, il sogno stesso di Kyoko, che alla fine apre gli occhi, rivelandoci l’agghiacciante verità sulla sorella, che in realtà è sempre rimasta con lei, senza mai morire tra le fiamme. 

La splendida palette di colori in cui i rossi caldi, che irradiano le scene dell’incubo, contrastano con i blu freddi, che caratterizzano il presente, e l’uso minimo della musica, creano un’opera stupefacente di cinema horror, la cui scabrosità non fa che accrescerne la bellezza.

Scritto da Ludovica Lancini