Scritto da Emma Scalera

Pubblicato il 04/12/2020

Ci sono film che non invecchiano mai, degli evergreen, che riescono sempre, anche a distanza di anni, a rimanere attuali. È questo il caso del celeberrimo film Blade Runner del regista inglese Ridley Scott, che si approccia nuovamente al genere fantascientifico tre anni dopo l’uscita del film Alien (1979) con il quale consacra la sua fama a livello internazionale. Blade Runner venne distribuito nel 1982 e, nonostante all’uscita nelle sale non venne accolto con grande successo (poco più di 40 milioni di dollari incassati a fronte dei 30 di budget), è riuscito a entrare a tal punto nell’immaginario collettivo che lo status di cult è addirittura riduttivo; cult-movie non tanto per la storia quanto per l’importo di arredi, linguaggi, look e tecnologie che ne fanno quasi un manifesto dell’estetica degli anni ‘80 . Ancora oggi si discute e, alle volte, si ‘litiga’ sul significato di Blade Runner e sull’eterna “questione Deckard”: umano o replicante?

Ma se l’avventura spaziale di Ellen Ripley non era che uno spietato horror basato sulla fame del cacciatore e la paura della preda, in Blade Runner la fantascienza si compone di nuovi generi, dando vita ad un film ibrido, un noir futuristico mescolato ad un poliziesco dark contaminato da scene dinamiche di cinema action. Ridley Scott riesce infatti a far sposare generi diversi in una più ampia riflessione sul cinema e sull’arte come rappresentazione del reale, tanto da collocarsi tra i nomi di punta del cinema post-moderno. Il film è basato sul romanzo sci-fi Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick; in fase di sceneggiatura Hampton Fancher e David Webb Peoples apportano alcune modifiche ma in piena collaborazione con Dick, che fornisce consigli e suggerimenti importanti, dimostrando un grande interesse per quella che poi sarà l’opera filmica. Il risultato è una riduzione degli avvenimenti rispetto a quelli che sono narrati nel romanzo, ma ciò che viene perso nella trama ritorna nella parte non detta, nello sfondo del film.

La storia racconta la vicenda del poliziotto, ormai fuori servizio, Rick Deckard, interpretato da un giovane Harrison Ford, in una Los Angeles distopica del 2019, sovrappopolata, cupa, piovosa, dove non sorge mai il sole. Il cacciatore di teste Rick Deckard è un ex agente dell’unità di Blade Runner, ovvero cacciatori di replicanti, che viene però forzatamente richiamato a servizio per una missione speciale. Sei replicanti del modello più evoluto sono fuggiti dalle colonie extramondo e l’agente Deckard ha il compito di ucciderli. I replicanti sono degli androidi creati artificialmente dall’uomo con avanzate tecniche di ingegneria genetica ma hanno sembianze umane, sono delle vere “repliche” dell’uomo, sintesi delle migliori virtù psichiche e fisiche. Dei sei replicanti scappati, due vengono catturati, mentre i quattro superstiti, capitanati da Roy Batty, cercano di infiltrarsi nella Tyrell Corporation, l’azienda che li ha prodotti, per poter modificare la loro “data di termine”. Infatti essi sono destinati a morire dopo quattro anni di vita perchè dopo quel termine sviluppano troppi sentimenti umani. Dopo aver indagato e essersi innamorato della replicante Rachel, Rick Deckard riesce a trovare il cattivo Roy Batty.

I due scontrano in un duello finale dove è in vantaggio il replicante, dotato di capacità intellettuale e forza fisica superiore agli uomini comuni. Tuttavia, nella scena finale, quando ormai si sono perse le speranze per il poliziotto, il film ci lascia spiazzati con un plot twist degno di nota; assistiamo all’umanizzazione di Roy Batty che decide di risparmiare la vita a Deckard.

Ci troviamo di fronte a una delle scene più importanti del film, il celeberrimo monologo del replicante:

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.

È con queste parole che si delinea il punto di contatto tra l’umano e l’extra-umano; tutto ciò che li rendeva diversi, con la morte si annulla. In procinto di andarsene, con questo gesto Roy diventa anche lui umano, morendo così da uomo. Se infatti in altre storie di androidi si è voluto sottolineare il carattere ribelle dell’automa che si rivolta al suo creatore, come nel classico caso di Frankenstein, Scott predilige un incontro tra umani e non umani, i quali dimostrano di essere consapevoli dei propri limiti, che soffrono per la loro fine prestabilita e per la fugacità della vita. 

Tra gli aneddoti più interessanti sicuramente vanno ricordate le particolari inquadrature su tre origami realizzati dal misterioso Gaff, l’uomo ombra che segue i passi del cacciatore di androidi. Il film infatti si conclude con la scena del ricongiungimento di Rachel con Deckard nel suo appartamento, ma la macchina da presa inquadra un misterioso origami a forma di unicorno. È l’ultimo origami; il primo è una gallina e il secondo un uomo. Sono molte le interpretazioni che si sono fatte su questi oggetti di carta, ma sicuramente la più importante è quella sull’unicorno il quale, essendo un animale fantastico, è il simbolo dell’illusione di Deckard di riuscire a scappare con la sua femme fatale, che però non vivrà. Inoltre questo dettaglio mantiene aperta la questione di Deckard replicante o umano. La visione a occhi aperti di un unicorno che torna nella mente del protagonista si dice essere frutto di un ricordo innestato artificialmente; di questo Gaff ne sarebbe stato a conoscenza e lo dimostra proprio con il suo origami, provando così la natura replicante dello stesso blade runner.  Questa scena però è presente solo nel “director’s cut”. Il film infatti ha visto diverse versioni nel corso degli anni, partendo dalla prima originale del 1982, se ne seguirono sette differenti. Tra le più importanti la “director’s cut” del 1992 e il “the final cut” del 2007.

Infine, a proposito degli ‘obiettivi’ del film, Ridley Scott rispondeva così a chi gli chiedeva se Blade Runner fosse una parabola allarmante sugli anni duemila quasi alle porte: “A dire la verità, Blade Runner non vuole essere un ammonimento. In nessun senso. È uno spettacolo. […] Francamente non credo che Los Angeles potrà mai congiungersi con San Francisco, come accade nel film. Però penso che la progressiva saturazione delle grandi città e la degradazione delle strutture urbane provocherà dei guasti veri. […] Certi film di fantascienza fanno ridere: la chiusura lampo diagonale, le orecchie appuntite, i capelli argentati, il cibo in pillole…Tra cinquant’anni saremo suppergiù come oggi. Altro che tutti robot!” 

Nonostante alle orecchie appuntite non ci siamo arrivati, Scott ha comunque intravisto un futuro che potrebbe diventare vero. Il film, ricco di una moltitudine di temi su cui riflettere, viene considerato un vero manifesto della fantascienza filosofica, che porta lo spettatore a porsi le fatidiche domande esistenziali sul senso della morte, sul valore dell’esistenza e il peso della libertà nel mondo moderno.