Scritto da Redazione

Pubblicato il 11/01/2021

Serenella, come si chiama questo affare su cui stiamo andando?

– Carrello. E questo affare qui?

– Cinepresa. E dentro la cinepresa cosa c’è?

– Un film.

Inizia così, con questo dialogo tra Serenella e la voce del regista che da dietro la cinepresa, mentre va da sinistra a destra e da destra a sinistra con incessante flemma, il film Il perché e il percome di Giuseppe Bertolucci. Serenella è una ragazza, ripresa a mezzobusto, appoggiata ad un albero, risponde col volto sempre verso la camera, anche se lo sguardo a volte divaga e intanto le labbra e la bocca si muovono nervosamente e inframezzano i tic alle parole, seguendone il movimento del carrello. “Il carrello dà metrica”, spiegava Bertolucci assieme al fratello Bernardo in ABCinema, cioè dà un ritmo e in questo film il carrello spezza, si frappone in sovrimpressione, coadiuva le lunghe interviste fatte alle persone che sono in cura nella comunità per tossicodipendenti di Villa Maraini. Il documentario è del 1986, gli ospiti hanno passato quasi tutti gli anni del più alto consumo di eroina. L’eroina viene definita come la signora, la madre, di tutte le droghe: “La bestia […]/ donneggiante” – per prendere a prestito le parole dal poeta più amato da Bertolucci. Ma il film non si concentra solo sul racconto della droga, l’astinenza, il buco, gli effetti, l’efficacia o meno delle comunità, che vengono trattate senza alcun fare apologetico, anzi spesso sono mostrati i limiti o i fallimenti di queste. Certo non manca anche questo aspetto, ma come evidenzia il titolo scelto, l’interesse è per il perché e il percome di quelle vite, così diverse e lontane delle varie persone intervistate ma che hanno incontrato in un certo momento sempre un unico fatto comune: la droga. La droga che viene raccontata non come la malattia, ma per il sintomo di un male, ed è di questo male che al fondo guardano le domande, che spesso sono solo singole parole da cui partire, quei perché e percome non tanto distanti dalle nostre vite.

Uno degli aspetti che certo non passano inosservati è il continuo disvelamento del mezzo tecnico, cinematografico, di cui è fatto il film, una costante nella filmografia di Bertolucci che sempre ha sperimentato e messo alla prova lo spettatore senza lasciarlo nella bambagia di una banale e anodina opera cinematografica, a volte anche preferendo questa via a discapito del puramente bello. Come quando, in questo documentario, decide di creare un loop perché di questo si sta parlando nelle interviste e per fatalità del montaggio si crea: così, a discapito di qualsiasi presunta necessità naturalistica del documentario – o forse per un’assoluta fedeltà? – riavvolge indietro un paio di minuti di film, mostrando bellamente il reverse e di nuovo la parte già vista, e questo per un paio di volte. E così, che invece del tema – o presunto tale -, capita a volte che si parli del documentario stesso: se è il regista che sta rubando al suo soggetto intervistato o viceversa, ma magari è un ladrocinio reciproco, e forse è accettato da entrambi questo furto, ma allora, se è accettato, è ancora un furto? Questo è quanto accade, perché nel cinema come nella letteratura, e in particolare nella poesia da lui prediletta e per lui di casa, il discorso su un tema diventa discorso sulla lingua stessa. Così anche nel suo cinema, dove diventa – e per suo piacere apertamente – discorso sul cinema stesso al di là del tema accidentalmente preso in caso, o tantomeno del genere, documentario o finzione che sia. Nel difficile equilibrio tra i due discorsi, quello metalinguistico e quello semantico, sta la riuscita o la caduta. Bertolucci non tema la caduta, e preferisce sempre questa all’anonimato di un cinema senza errori ma anche senza autore. Poi, se si guarda al film in questione, difficile vedere in questo caso una caduta. Basterebbe anche solo l’intervista a Serenella, che segnata dalla morte dice la sua pensatina antimetafisicante, raccontando di quel suo Marco che non pensa rivedrà, morto non per droga, ma, spiega lei, con parole che quasi paiono quelle del poeta preferito da Bertolucci, perché:

Si muore d’asfissia,

è noto, per difetto

d’ossigeno. Lo si può anche,

e forse più dolorosamente,

per mancanza d’affetto.