“Fatuo agg. [dal lat. Fatuus]. – 1. Vuoto, vano, leggero, detto di persona e per estens. Di cosa: uomo, giovane fatuo. 2. Fuoco Fatuo, fiammella azzurrognola, dovuta all’accensione spontanea dei prodotti gassosi di decomposizione dei cadaveri, che si forma talvolta sopra le tombe, nei cimiteri. In senso fig., passione improvvisa ma di breve durata: s’innamoro di quella ragazza, ma fu un fuoco fatuo. Avv. Fatuaménte, in modo fatuo, con vuota futilità: ridere, chiacchierare fatuamente.” – Enciclopedia Treccani.

La prima volta che ho visto Fuoco Fatuo (Le feu follet), per la regia di Louis Malle, ne sono rimasta emotivamente scossa.

Complice anche il fatto di essermi prima imbattuta nel romanzo omonimo di Pierre Drieu La Rochelle, la cui lettura è stato un voyage in un vortice nichilista e da cui ne sono uscita  – per citare l’ultima pubblicazione di Houellebecq – letteralmente annientata. Il film ripercorre passo per passo la fugace vita del protagonista Alain Leroy, interpretato da Maurice Ronet. Devo ammettere che spesso mi capita di guardare con sospetto a tutte quelle pellicole che sono la trasposizione di un romanzo a cui tengo particolarmente. Nonostante questo mio sguardo preventivamente disilluso, devo dire di essere stata colpita in maniera positiva dal film, che ho trovato molto fedele al libro. Lo svolgimento della narrazione si situa negli ultimi due giorni di vita del protagonista: Alain Leroy è svuotato da ogni tipo di joie de vivre, intossicato dall’alcol e prossimo al suicidio.

Un uomo che cammina fra i vivi come un già-morto, un’ombra in balia di se stesso ed incapace di sfuggire alle proprie debolezze, che soffre della malattia più terribile di tutte; quella che intacca l’anima. Il protagonista si ritrova ad essere in costante lotta con un’esistenza a cui non sa dare ragion d’essere, in una società che gli impedisce di ritagliarsi un ruolo. La vita del protagonista per tutto il romanzo, e anche nel film, è caratterizzata da volti che appaiono più come maschere, visi che ricordano qualcuno del passato: l’amore di un tempo, un amico fraterno, sguardi che ora rimangono solo figure vuote ed irriconoscibili. 

Si potrebbe definire la pellicola in questione come una delle più cupe del ciclo della Nouvelle Vague, eppure anche quest’affermazione risulterebbe posticcia, poiché ciò che tiene in piedi il racconto di La Rochelle è proprio l’insieme dei paradossi che lo caratterizzano: i quali permettono sia all’autore del romanzo, che al regista, di riuscire a raccontare una storia piena di turbamento, con in sottofondo uno stonato senso di leggerezza.

Come è difficile parlare di Fuoco Fatuo, mi richiede uno sforzo enorme provare a buttare giù qualche parola in merito a questo film, perché più se ne parla, e più si rischia di esaurirlo a congetture, di chiuderlo in uno scompartimento, di criticarne inevitabilmente l’aspra visione nichilista – che alla prima visione anche alla sottoscritta aveva suscitato una grande rabbia – oppure di ritrovarsi a prendere le parti in favore di un “uomo senza qualità”, che nonostante la sua immaturità emotiva, assume a tratti le caratteristiche tragiche di un eroe antico. L’incapacità di parlare di un film del genere nasce, a parer mio, dalla singolare struttura narrativa del romanzo, e di conseguenza del film: essa si situa in un milieu – per usare un termine tanto caro a Gilles Deleuze, Jacques Derrida e tanti altri filosofi francesi – cioè nel mezzo di qualcosa, che, come un sogno, non ha un inizio e nemmeno una fine. Un film che non ha un tempo e nemmeno un luogo, che a tratti si mostra come estremamente attuale, mentre per altri versi incredibilmente antico, lontano, irraggiungibile. Il Gnossiennes di Erik Satie è la sola sinfonia a fare da sfondo ai suoni e rumori di una Parigi uggiosa, che ogni tanto, ci riporta con i piedi per terra, ricordandoci che alla fin fine, tutto questo struggimento, è solo l’ennesimo mondo di finzione.

Scritto da Francesca Pascale