La tematica di Zelig è tutt’altro che leggera. Il registro del film, al contrario, cerca di far sorridere in tutti i modi; a volte con acume, a volte con fragorosi scherzi degni della comicità slapstick. Dopotutto si tratta di un mockumentary che riprende le avventure di un paziente unico al mondo, vissuto i primi anni del ‘900. Curiosità: Woody Allen ha usato attrezzatura originale degli anni ’20 per la realizzazione di alcune parti del film, e si vede. Il commento del film è tipico di un vecchio documentario americano, con giudizi facili e battute patetiche, intramezzato da interviste a veri critici letterari e personaggi della cultura contemporanea che descrivono le vicende con interesse accademico. Uno di loro afferma chiaramente: “Se Zelig fosse psicotico o solo estremamente nevrotico, era un problema che noi medici discutevamo in continuazione. Personalmente mi sembrava che i suoi stati d’animo non fossero poi così diversi dalla norma, forse quelli di una persona normale, ben equilibrata e inserita, solo portata all’eccesso estremo. Mi pareva che in fondo si potesse considerare il conformista per antonomasia“. Non è così celato il disagio espresso da questa commedia, anche se il pubblico colto abituato a certe commedie non si sarà sentito preso in causa.

Zelig è un uomo nato con una strana sindrome che lo porta a trasformarsi psicologicamente e fisiologicamente nella persona che gli si trova accanto, come reazione nervosa di uno stress inarginabile. In altre parole, è la storia di un individuo che non riesce ad accettare la diversità di cui è fatto il mondo e, non potendolo sopportare, finisce con il cambiare lui stesso annullandosi. Non si capisce bene la natura di questo malessere e in poco tempo Zelig acquista la fama di Uomo Camaleonte spopolando nella cultura pop degli Stati Uniti e del mondo occidentale. Ma purtroppo, a questa esaltazione della sua persona, corrisponde un obnubilamento totale di quel poco che rimane della sua misera personalità. C’è solo una psicologa, la dottoressa Fletcher, che intuisce il malessere di Zelig, pur non trovando il modo scientifico di inquadrarlo. A poco a poco, il nostro eroe ritrova brandelli di sé, sebbene con qualche ricaduta, iniziando una guarigione grazie alle attenzioni della psicologa di cui presto si innamora. Zelig acquista i mezzi per governare il proprio sé, gustando il faticoso traguardo di essere se stessi senza nascondersi nei panni di qualcun’altro. Ma purtroppo si tratta di una gioia effimera: una volta riacquistata la coscienza, tutte le conseguenze di anni e anni di camaleontismo si infrangono impietose contro di lui, ora che finalmente il nostro eroe è in grado di prendersene carico.

Nel pieno di quella che oggi chiameremmo una shitstorm mediatica, Zelig decide di fuggire. Di lui non si ha traccia e la dottoressa Fletcher, che ormai ha capito di essere innamorata, è disperata. Solo l’amore è stato capace di curare la condizione patologica di Zelig e solo l’amore sarà in grado di sottrarlo dalla forza omologante per definizione: il partito nazista tedesco. Assalito dalle conseguenze delle sue identità impazzite, Zelig ha trovato rifugio nel luogo dove il suo camaleontismo può nasconderlo dal mondo nel modo più efficace possibile. Eppure, è proprio questa sua condizione patologica a trarre in salvo i nostri eroi in un finale del tutto inaspettato che non intendo svelare qua. Insomma, lungi da commenti di natura politica, meglio camaleonte che nazista.

E’ come se Allen ci dicesse che una volta usciti dal guscio del conformismo, una volta preso coraggio e alzata la testa, ci fosse una forza regolatrice capace di rendere questi sforzi vani. Non è affatto facile essere se stessi, accettare le proprie particolarità e soprattutto esporsi al giudizio altrui. Zelig è un film straordinariamente attuale. Nonostante rifletta il disagio del sogno americano nel secondo dopoguerra, è leggibile un messaggio che ancora oggi vale: il disagio di stare al mondo. Se esiste uno scopo nella vita non lo so, ma so per certo che la nostra è una società competitiva dove essere sempre impegnati è diventato uno status symbol (ma che ne sanno i nobili de na volta che non facevano un cazzo… quei falliti!) e mostrare i propri risultati sui social la norma. La nostra identità si basa sulla ripetizione di attività performanti che dimostrano a noi stessi e agli altri che cosa siamo. Per fortuna (homo faber fortunae suae) esistono gli affetti personali, piccole fettine di intimità dove ci è consentito non dover dimostrare continuamente di essere qualcuno.

E’ commovente vedere nel film di un cinico bastardo come Woody Allen, che l’amore sia in grado di far sentire un caso disperato una persona e non una macchietta, un subumano incapace di stare al mondo che si lascia vivere pur di non affrontare la cosa più spaventosa che c’è al mondo: stare al mondo. 

Scritto da Andrea Lombardi