È possibile trovare una definizione di inquietudine? Questo senso di disagio, se così possiamo descriverlo, è stato identificato per la prima volta nel tardo diciottesimo secolo da Anthony Vidler che ne Il perturbante dell’architettura scriveva: “La sensazione di inquietudine era particolarmente difficile da definire. Né terrore assoluto né ansia lieve, l’inquietudine sembrava più facile da descrivere in termini di ciò che non era, che nel suo senso proprio.”. Vidler dimostrava di aver avuto un problema simile a quello che spettatori e critici avranno di fronte all’operato di David Lynch. Nel suo caso non solo risulta complesso definire le sensazioni che scaturiscono nel guardare un film, ma interrogarsi e cercare di comprendere ciò che si è appena visto. Questo perché l’inquietudine e l’indeterminatezza rappresentano il fulcro attorno al quale ruota il lavoro del regista. L’insolita propensione ad accedere alla propria vita interiore e, di conseguenza, a scavare a fondo nell’intimità dei personaggi, fa sì che le sue pellicole siano intrise di un’atmosfera profonda, ma al tempo stesso perturbante. Gli stati d’animo che maggiormente lo interessano sono quelli legati all’onirico e alle tracce emotive contenute nei sogni e, soprattutto, negli incubi, rendendo di conseguenza arduo spiegare e trasmettere le sensazioni con immagini o parole. Il modo di raccontare del cinema tradizionale, in maniera logica e lineare, non appartiene al regista ed è per lui consueto rendere le sue opere tutt’altro che leggibili, permeando di confusione e disorientamento. La sua strategia consiste nel trasformare ciò che normalmente viene considerato familiare in qualcosa di non familiare, generando un senso di estraneità e rigetto nello spettatore, che si perde in ambienti benevoli solo all’apparenza. 

La sensibilità di Lynch per il perturbante inizia a manifestarsi fin dall’adolescenza, quando decide di iscriversi in Accademia e di concentrarsi sulla realizzazione di opere pittoriche e dei suoi primi particolarissimi cortometraggi (ho scritto un articolo a riguardo, lo trovate qui https://quartaparete.altervista.org/a-pesca-tra-i-cortometraggi-di-lynch/). Mentre dipingeva maturò un’idea che riuscì a trasformare in una sceneggiatura di sole ventuno pagine (ogni pagina corrisponde a un minuto di girato), che a distanza di qualche mese diede vita al suo primo lungometraggio, Eraserhead. Girato solamente di notte per rendere al meglio l’atmosfera cupa e disturbante che il regista voleva trasmettere, Eraserhead arrivò a durare ben ottantanove minuti, dimostrando fin da subito come Lynch fosse stato assorbito dal film, lasciando quasi del tutto perdere la sceneggiatura. Fin dalla primissima scena siamo catapultati in un universo che di convenzionale ha molto poco e che viene sovrascritto al volto del protagonista Henry che, con gli occhi sgranati ed uno sguardo al limite dell’angoscia, sembra fluttuare nello spazio siderale. Alle sue spalle si staglia un piccolo pianeta a cui ci avviciniamo lentamente, accompagnati da un susseguirsi di suoni che ci metteranno a dura prova non solo in questi primi minuti, ma per tutta la durata del film. La colonna sonora è la vera protagonista della pellicola e costituisce un ambiente a sé stante, realizzato a quattro mani dal regista e dal sound designer Alan Splet. I due decisero di combinare frequenze basse e rimbombanti, rumori industriali stridenti ed echi spettrali del passato della musica pop per creare un mondo sonoro mai sentito prima al cinema. L’atmosfera inquietante di Eraserhead è stata ispirata dalla storia post-industriale di Philadelphia verso cui Lynch provava un misto di ammirazione e disgusto. L’architettura decadente e i magazzini abbandonati lo portano a descrivere la città come “un luogo molto malato, contorto, violento, pieno di paura, decadente e in decadenza” ma al tempo stesso “bellissima, se la si vede nel modo giusto”. La colonna sonora si poneva come obiettivo quello di diventare un luogo, evocato dai suoni dei macchinari pesanti e trasposto in bassa qualità tramite suoni arrugginiti e deteriorati. La città viene quindi descritta da un punto di vista più sonoro che visivo, si sente ma non si vede, e incombe sui suoi abitanti come una presenza malefica costante.

In questo microcosmo costernato da deformità è l’inconscio a prendere il sopravvento, dando vita a un film da sperimentare piuttosto che da spiegare. Ogni tentativo di interpretare e ricostruire una sinossi risulta piuttosto arduo, trattandosi principalmente di una pellicola il cui obiettivo è quello di penetrare la natura esatta (e contorta) della vita interiore. Il regista si rifiuta categoricamente di interrogare immagini e suoni con lo scopo di renderle esplicite, cercando di portare sullo schermo le proprie personali visioni. 

Per ultimare il film ci vollero ben cinque anni, periodo in cui la devozione di Lynch al film fu totale. Lavorava pensando spesso al mondo che stava creando: il protagonista Henry rappresentava l’insieme di tutte quelle persone che avevano sempre vissuto ai margini, in un posto sperduto e insignificante, fatto di piccoli tormenti nei quali la gente si dibatteva nell’oscurità. 

Il punto di Eraserhead è che non diventa mai meno inquietante, non perde mai il senso di un piccolo ma indelebile trauma psichico. Lynch stesso l’ha definito “un sogno di cose oscure e inquietanti”. Il film è separatore, c’è una vita prima di aver visto Eraserhead e una vita dopo aver visto Eraserhead

Scritto da Ludovica Lancini