Scritto da Alice De Santis

Pubblicato il 30/06/2020

“Una serie di brutali uccisioni di giovani afroamericani per mano della polizia scuote gli Stati Uniti. Intanto le Black Panther organizzano una manifestazione di protesta contro la brutalità della polizia e una comunità nera del Sud americano affronta gli effetti persistenti del passato cercando di sopravvivere in un paese che non è dalla parte della sua gente”.  

Roberto Minervini

Questa non è un pezzo di cronaca americana di questi giorni, ma la sinossi del film What You Gonna Do When the World’s on Fire? di Roberto Minervini: siamo nell’estate del 2017 e il regista con la sua famiglia e la troupe è andato in Louisiana per esplorare le disuguaglianze sociali nell’America contemporanea e la condizione degli afroamericani. 

I protagonisti di What You Gonna Do When the World’s on Fire?  appartengono a orizzonti distinti ma ricchi di echi e rimandi. 

C’è la carismatica Judy, una nera con sangue pellerossa che gestisce uno storico bar di Tremé, il più antico quartiere black di New Orleans, e cerca con disperata allegria di tenere insieme tutto: le canzoni, la memoria, la coesione della sua gente, le cure per la madre malata, quel locale pieno di musica e di storie che alla fine gli speculatori le porteranno via. Ci sono Chief Kevin e gli indiani del Mardi Gras, che cuciono senza sosta gli sfarzosi abiti da cerimonia destinati alla festa più rappresentativa della straordinaria (e dimenticata) cultura meticcia nata negli stati del Sud con l’abolizione della schiavitù, quando neri e nativi americani incrociarono culture, sangue e destini. Ma ci sono anche le nuove Black Panthers, gruppo di autodifesa sorto sulle ceneri dello storico movimento anni Sessanta, che combattono la cultura della paura e dell’aggressione indagando su due omicidi razzisti verificatisi durante le riprese e subito rubricati come suicidi. E infine ci sono i due fratelli Ronaldo e Titus, 14 e 9 anni, che vagabondano per la città giocando e discutendo con serietà e attenzione delle regole non scritte cui deve sottostare la loro gente.

Una scena di What You Gonna Do When the World’s on Fire?

Un film che oggi appare quanto mai attuale ma che due anni fa, presentato alla 75ª Mostra del cinema di Venezia, dava a dei soggetti in quel momento invisibili la possibilità di rappresentarsi. Con tutta la bellezza e la profondità garantite dal lavoro di Roberto Minervini.

Immergersi nella filmografia del regista marchigiano (nato a Fermo ma cresciuto cinematograficamente negli USA) significa dimenticare gli sfavillanti grattacieli di New York, la spiaggia di Malibu, la notte delle stelle, la statua del Lincoln Memorial e tutte le immagini associate all’America trionfante, patria delle libertà civili e del sogno alla portata di tutti. Significa al contrario affrontare il rischio, la paura, l’ignoto, il diverso, il pericoloso, il disgustoso, l’immorale, il dissonante: elementi che delineano il profilo di un paese allucinante e a tratti allucinato, dove la democrazia nata attraverso il conflitto si basa sull’annichilimento di alcune fasce della società.

Una scena di Stop the Pounding Heart

Questo tipo di cinema è inevitabilmente politico: non è un esercizio di stile ma uno strumento di protesta, opinione e insubordinazione. Colpisce direttamente lo spettatore perché non è solo dichiarazione estetica ma anche presa di posizione etica: per Minervini fare il regista corrisponde all’urgenza di raccontare alcune storie, quelle in cui si intrecciano i temi della miseria, della dignità e della resistenza, e che portano nelle zone nascoste della società americana. Microcosmi generalmente preclusi a occhi indiscreti appaiono allora proiettati su uno schermo dove i protagonisti di queste storie chiacchierano, si ammazzano, si raccontano in un rapporto di fiducia che viene costruito sul luogo, non deciso a tavolino negli studi, e in cui prende forma il lavoro attento e delicato del regista e della sua troupe. Una professionalità che non consiste solo nel farsi accettare e nel riprendere quanto accade, ma anche nel coinvolgere i personaggi nel processo creativo delle riprese fin dal primo momento. Una specie di osservazione controllata in cui al momento giusto il regista sembra accendere la macchina da presa per fissare quanto sta accadendo e catturare istanti forse impossibili da ricostruire in scena.

Una scena di Louisiana

Basta aver visto certe scene d’amore e di droga di Louisiana, il lungo dialogo tra madre e figlia in Stop the Pounding Heart, o la scena di What You Gonna Do When the World’s on Fire?  in cui Judy consola la donna che racconta le violenze subite in casa fin da ragazza dicendole di drogarsi pure quanto vuole se questo la fa star meglio, per capire di cosa sto parlando. Non si tratta di semplice intimità tra personaggi e regista. In questi momenti quasi intollerabili di verità appare qualcosa che trasforma il cinema in testimonianza, in presa di coscienza della realtà intorno a noi, quella stessa realtà che spesso non vogliamo né vedere né ascoltare. Minervini, come un fotografo di guerra, la osserva invece per noi e ce la restituisce per guardarla a distanza di sicurezza, per interpretarla, indagarla e forse anche comprenderla.