“This wealth should come to us. Their time is over.” 

William Hale 

Con una sola frase si consuma la violenza subita dalla comunità indigena Osage nella Oklahoma rurale, dove Martin Scorsese ambienta il suo ultimo film, candidato agli oscar 2024, Killers of the Flower Moon. L’opera cinematografica, tratto dal libro di David Grann, rappresenta una storia di tradimento, di avidità, di razzismo e di “genocidio culturale” degli Osage. Al contempo si fa portatrice di una critica feroce al mito americano, alle sue sanguinose origini del business del petrolio, preannunciando le future ripercussioni sull’ambiente. Ancora oggi, tale tragedia storica sembra avere ancora risonanza nella contemporaneità, sia per le conseguenze che hanno avuto le comunità indigene d’America nella loro vita, a partire dall’essere “recintati” nelle riserve, sia per la dispersione e perdita della propria cultura madre e lingua, e soprattutto per le conseguenze che l’industrializzazione americana ha avuto sull’ecosistema. 

I protagonisti centrali che ambientano questo western dai toni drammatici sono: Ernest Burckhart. (Leonardo diCaprio), l’archetipo del classico uomo americano talmente ordinario quanto insignificante, il ricco allevatore William Hale (Robert de Niro), che è emblema del ferocia del magnate americano che si maschera come benefattore verso gli indigeni,  e Mollie Kyle, la giovane donna Osage interpretata dalla strepitosa Lily Gladstone. 

La narrazione parte dall’arrivo di Ernest in Oklahoma negli anni ’20, subito dopo il congedo dal servizio militare nella Prima Guerra Mondiale. Ancora in uniforme, non ha alcuna aspettativa sul suo futuro se non che lo zio, il magnate locale William Hale, soprannominato King, gli offra un lavoro. Hale, però, ha ambizioni più “alte” e meschine per il nipote, ovvero vuole che Ernest sposi una Osage per ereditare i soldi del petrolio. Per ottenere l’eredità Ernest dovrà far in modo di sbarazzarsi prima i parenti della futura moglie e, successivamente, anche lei.  King ha già persino scelto la candidata, la bella Molly Kyle, la quale viene corteggiata assiduamente da Ernest. Il problema è che entrambi si innamorano e il loro amore sembra essere veramente genuino, caratterizzato da una fortissima chimica fisica e passionalità. 

Tuttavia, questo sentimento viene progressivamente corrotto nel corso del film, in cui Ernest attuerà senza protestare gli ordini voluti dallo zio, portando nella vita locale indigena un vero “Regno di Terrore”. La conseguenza di tale piano è la strage della famiglia di Mollie, la quale, nonostante mostri una classe e dignità nell’affrontare i lutti familiari, è determinata a cercare la verità. Lei stessa, seppur malata di diabete, si reca a Washington per sollecitare un’investigazione sulla morte delle sue sorelle. 

È evidente come l’accento del regista si pone su Mollie, di cui non possiamo avere accesso a tutti i suoi pensieri, ma ne intravediamo la solennità, la forza quasi stoica di lei che cerca di fronteggiare lo spirito di morte che ha stravolto la sua vita. Non è solo il personaggio sulle cui azioni ruota il dramma, ma anche quello la cui soggettività, presentata con parsimonia ma suggerita con forza, dà alla storia un senso di vita interiore. 

A mio avviso, Scorsese sembra indirizzare lo spettatore a prendere lei come punto di riferimento, poiché è colei che ci introduce all’ultima parte del film, in cui verrà alla luce la colpevolezza di Burckhart e di King. Infatti, è proprio in questa fase finale che a Ernest viene offerta la possibilità di confessare i suoi misfatti e di contribuire a far crollare il sistema di criminalità organizzata che li ha generati, di testimoniare in senso ufficiale.  In verità, la confessione più agghiacciante e straziante sarà quella che farà a Mollie e tale momento rappresenta la pressione morale che raggiunge la massima potenza, che però mostra come la moglie, in fondo, avesse avuto già i suoi sospetti.  È in questa scena finale, in cui è chiaro che il vero protagonista della storia non è Ernest, bensì Mollie, la cui performance di Lily Gladstone risulta essere magistrale, attraverso il suo sguardo stoico, carico di dolore ma non melodrammatico, ma che incarna la sofferenza dell’intera comunità Osage. 

Vi sono numerose ragioni per cui il lungometraggio di circa 3 ore di Martin Scorsese sia tra i dieci candidati all’Oscar. Queste sono da trovarsi, come ho già ripetuto, nella performance di Lily Gladstone, per una regia che ha saputo, secondo me, unire il crime, la tragicità di eventi realmente accaduti, e il western in un risultato originale, definito dalla stessa critica come un “masterpiece”. Così come per la migliore scenografia, fotografia, per i migliori costumi,  costumi realizzati interamente da artisti Osage riuniti dalla leading designer Jacqueline West e dalla sua collaboratrice, Julie O’Keefe. Infine, per non dimenticare, anche la colonna sonora e la canzone originale hanno avuto un ruolo determinante nella nomination di questo film agli Oscar, perché incarnano il sentire della popolazione Osage, omaggiandola. 

Nonostante vi siano film contendenti che hanno riscontrato moltissimo successo nel 2023 e che siano diventati anche simbolo di un intero anno, come Oppenheimer e Barbie, Killers of the Flower Moon si presenta come una voce fuori dal coro, poiché ha come focus, a mio avviso ben riuscito, di far riflettere sulle atrocità subite da tutte le popolazioni indigene americane da parte dell’uomo bianco, dando voce di questo dolore universale a una figura femminile che tenta di sfidare la società americana, incarnata da King.

Scritto da Indjia Sturaro

Aspettando gli Oscar 2024: Killers of the Flower Moon