“[…] Anche tu dimenticherai tua madre e tuo padre, un giorno”

“Io non li dimenticherò mai.”

È stata la mano di dio è più di un film: è un diario visivo che fa avvicinare gli spettatori verso l’intimità più profonda del regista pluriacclamato Paolo Sorrentino. È un ritratto sì onirico di una Napoli nostalgica, della stagione d’oro di Diego Armando Maradona, ma è soprattutto una lettera d’amore alla sua famiglia e a un passato da cui ha cercato di sfuggire: la morte dei suoi genitori che non ha mai dimenticato. La storia, rielaborata in un’autobiografia inventata, non si limita al racconto di un lutto: mostra le diverse sfaccettature di una famiglia che assomiglia a quelle di tantissime altre, unita da un lato e disfunzionale dall’altra. È stata la mano di dio, se si può dire, rappresenta un dramma universale che tocca tutte le famiglie, dalla perdita dei genitori, l’adolescenza e il diventare adulti, facendo allo stesso modo sperare nel futuro. 

Sorrentino ci fa immergere nella Napoli degli anni ’80, dai colori sgargianti e dal blu intenso del mare. Ci introduce subito Fabietto (Filippo Scotti) e i suoi genitori, Maria (Teresa Saponangelo) e Saverio (Toni Servillo) seduti sulla motocicletta mentre si tengono stretti in una calda serata d’estate. Un attimo che rimarrà per il giovane impresso per sempre nella sua mente, e che cercherà di rivivere ogni qualvolta vorrà fuggire dal vuoto incolmabile che la loro morte ha lasciato in lui.

Nel lungometraggio, vediamo come Fabietto sia strettamente legato a mamma Maria e papà Saverio, a cui guarda con ammirazione. Tuttavia, nell’apparente idillio, è possibile vedere come lui sia trattato, in parte, ancora come un bambino da parte di Maria, mentre il padre si presenta superficiale nel comprendere il disagio e la solitudine che lui sta attraversando, mostrando anche l’incomunicabilità che spesso pervade le famiglie odierne. Una famiglia che, in verità, presenta delle crepe, poiché si scopre che Saverio ha avuto una relazione extraconiugale. È una situazione che è spesso ricorrente nella quotidianità di chi lo vive e, come alla sottoscritta, è successo di sentirlo dalla bocca dei propri amici, che ne hanno sofferto le conseguenze. 

Non intravediamo molto della relazione tra Fabietto e la sorella Daniela, se non in una scena successiva alla morte dei genitori, quando gli confida l’esistenza di un fratello segreto, che gli fa crollare il mito del padre. Diverso è il legame che lo unisce al fratello Marchino, figura completamente opposta sia nello stile di vita, sia nel metabolizzare il lutto. Mentre Fabietto ha dovuto crescere in fretta, Marchino pensa a divertirsi non volendo guardare al futuro. Sorrentino non condanna il fratello maggiore, si sofferma ad evidenziare come queste due visioni della vita li renda in parte distanti, nonostante siano uniti dal medesimo dolore. Mostra quanto questo sia spesso frequente tra fratelli e familiari e, proprio perché elaborano il lutto in famiglia diversamente, si possono allontanare, non intendersi e persino scontrarsi. 

Vi è un’altra figura cardine di questa intera vicenda, la sola che comprende veramente il ragazzo e il suo dilemma esistenziale: zia Patrizia (Luisa Ranieri). Lei incarna il suo primo amore, la sua prima fantasia erotica, ma soprattutto lei è la sua Musa. Si presenta come l’eccezione dalla norma, è provocante e non ha paura di esprimere il suo malessere. Per questo viene considerata pazza e mandata in un istituto psichiatrico. Ciò che la fa risaltare, oltre alla sua bellezza, è la sua spiccata sensibilità nei confronti di Fabietto. È bellissimo, infatti, lo scambio di battute tra loro nell’istituto psichiatrico, in cui, mentre lui gli confida che non riesce a piangere, lei dolcemente gli risponde: “Non ti preoccupare. Vuol dire che non è il momento.” Si mostra, così, comprensiva nei confronti di quel nipote che ha perso tutte le sue certezze, facendosi persino custode dei suoi sogni, come il suo desiderio di diventare un “regista di film”. Il fatto di sapere che lei crede in questa sua aspirazione, lo spingerà a non voler narrare della realtà “scadente”. Un concetto che verrà ripreso dallo stesso Fabietto quando si confronterà con il regista teatrale Antonio Capuano, dopo uno spettacolo teatrale, il quale gli fa l’appello a non disunirsi e a non scappare dal dolore, poiché saranno la sua tragedia umana e la sua Napoli da cui un giorno potrà trarre ispirazione. 

La magia di questo film risiede nel mostrare la famiglia senza pretese o senza celarsi dietro a ideali impossibili, come è solito vedere tutti i giorni nelle pubblicità. Ci svela come tutte le famiglie, in un modo e in un altro, siano tutte disfunzionali, complicate, piene di dissidi, rancori non detti e di tanti segreti non svelati. La differenza sta solamente in chi lo smaschera meglio. Il tutto avviene senza fare una critica sferzata, per concentrarsi piuttosto sul percorso di Fabietto nel navigare nel mondo dei grandi.  È per questo che il dramma familiare narrato da Sorrentino è invece un racconto che diventa anche nostro, in cui è possibile immedesimarsi, riconoscersi, arrabbiarsi, commuoversi e ridere assieme ai suoi protagonisti. 

Scritto da Indjia Nadeje

Una lettera d’amore alla famiglia da Paolo Sorrentino